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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Il populismo visto da Fukuyama. Intervista

Ma allora il populismo è una malattia da sradicare, potenzialmente mortale per la democrazia, o una reazione comprensibile agli errori compiuti dalle classi dirigenti che, a certe condizioni, può anche diventare una risorsa?
«Dipende dai leader» risponde Francis Fukuyama. «Quelli attuali – penso soprattutto a Trump, Orbán e Salvini – sono degli opportunisti che sanno solo trarre vantaggio dallo scontento e dalle paure di molti cittadini. Ma non è stato sempre così».
Sono le sei e mezzo del mattino: l’ora in cui, in una giornata newyorchese molto intensa, lo storico della Stanford University, autore del celebre La fine della storia, pubblicato dopo la dissoluzione del blocco sovietico, e di molti altri saggi sulla crisi della democrazia, è riuscito a trovare uno spicchio di tempo per rispondere alle domande del Corriere.
In un’intervista di un anno fa al nostro giornale lei citò il caso del presidente Andrew Jackson, eletto nel 1829, come un esempio di populismo deteriore: detestava le élite, volle governare senza esperti e fece disastri. Con lui e per molto tempo dopo l’America ebbe un’amministrazione inefficiente e corrotta. Ma in «Identity», il suo ultimo saggio, appena uscito, lei cita anche il populismo costruttivo col quale, nel 1932, Franklin Delano Roosevelt alimentò il suo New Deal.
«Certo: nella storia non mancano esempi di populismo utile. Gli Stati Uniti d’America sono nati da una rivolta populista: lotta contro l’oppressione coloniale, ma anche contro la burocrazia britannica e le sue tasse. E anche il nazionalismo ha avuto spesso una funzione utile. Oggi ha una cattiva reputazione per quello che è successo nella prima metà del Ventesimo secolo, ma ce ne sono varie forme. C’è un nazionalismo liberale e non aggressivo che accetta le persone con differenze culturali, che rafforza la democrazia con un sentire comune, con obiettivi condivisi che diventano collante sociale».
Trump, che sfida l’establishment e oppone al multilateralismo una rete di alleanze tra governi nazionalisti, fa proseliti.
«Se Trump non avesse vinto le elezioni, non avrei scritto Identity. Bisogna capire cosa c’è dietro il fenomeno che lui incarna. Ci sono gli impatti economici devastanti di due crisi: il crollo finanziario di dieci anni fa, quello provocato dal crac Lehman e, più di recente in Europa, la crisi del debito greco. Ma non si tratta solo di economia. Ci sono anche ferite culturali come il malessere per la perdita d’identità, sempre più sbiadita in tempi di globalizzazione e di fenomeni migratori imponenti, spesso gestiti con poca lungimiranza dai governi occidentali. Le élite, insomma, hanno le loro colpe e la reazione populista è comprensibile. Solo che la cura – protezionismo e xenofobia – è peggiore della malattia».
L’erosione è cominciata ben prima del crollo della Lehman. Lei stesso nota, nel suo saggio, che l’impoverimento dell’America che vota Trump è iniziato 40 anni fa.
«Vero, ma, come le dicevo, la crisi, esacerbata dall’impoverimento, non è solo economica. E questo rende tutto più difficile: per uscirne non basta fare riforme, governare meglio. Bisogna affrontare il malessere per la perdita d’identità, il risentimento, il bisogno di essere riconosciuti: l’ira dei propri cittadini, ma anche quella di altri Paesi. La forza di Putin in Russia, di Xi Jinping in Cina e di Orbán in Ungheria è anche quella di dichiarare che la loro politica è una reazione alle umiliazioni subite per decenni dalle loro nazioni. Quanto all’Italia, è vero: la crescita è bloccata da ben più di un decennio. Ma se Salvini emerge oggi con tanta forza è per una crisi d’identità legata soprattutto ai fenomeni migratori».
Un’onda potente, non facile da gestire. Vede terapie praticabili?
«Flussi enormi, certo, ma l’Europa poteva affrontarli meglio. Intanto quella di chiudere la rotta balcanica è stata una scelta politica, accettata da Bruxelles, che ha scaricato tutta la pressione su Italia e Grecia. E poi i flussi vanno gestiti. Vanno regolati in modo da non travolgere le identità nazionali. Al tempo stesso, però, queste identità non possono essere basate su criteri etnici. Lo ius sanguinis deve lasciare il campo allo ius soli, altrimenti la cittadinanza diventa una barriera insuperabile all’integrazione. I processi di assimilazione, essenziali, a volte falliscono non per atteggiamenti razzisti, ma per errori sul piano educativo o perché si fa entrare un numero troppo elevato di immigrati. Nel 2015 la Merkel ha sbagliato perché ha accettato troppi rifugiati rispetto alle capacità di assimilazione del Paese. La Germania, poi, pur finanziando le scuole musulmane e delle altre religioni, non è un esempio virtuoso perché tende a mantenere la divisione tra diverse culture ed etnie. Vale anche per l’Olanda dove gli studenti sono segregati per religione. Errori che stanno costando cari alla cancelliera».