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 2018  settembre 15 Sabato calendario

Il rum più antico del mondo? Freschissimo dopo 238 anni

Non c’è un motivo particolare per cui si trattiene il fiato quando la ceralacca si sbriciola e una mano ferma stappa la bottiglia. Nessuno rischia di farsi male, fuori i grattacieli di Londra sembrano piuttosto indifferenti alla sera, alla Brexit e al sughero in pericolo. Eppure nessuno riesce a muovere un muscolo. Poi, quando il tappo esce indenne e senza nemmeno un «pof» ti riporta come per magia a prima della Rivoluzione francese, le bocche si allargano in un sorriso. E si preparano ad assaggiare l’Harewood 1780, il rum più vecchio del mondo.
Inizia così la «degustazione del secolo», o per meglio dire «dei secoli». Al settimo piano del Four Seasons, in piena City, una trentina di fortunati fra blogger, giornalisti e collezionisti da Seattle a Kuwait City sta per circumnavigare duecento anni di storia bagnandosi solo le labbra. L’occasione è la presentazione del primo imbottigliamento ufficiale di Hampden Estate, distilleria giamaicana considerata fra le migliori di sempre. Aperta nel 1753, non ha mai venduto un’oncia di rum invecchiato con la sua etichetta: è diventata un mito semplicemente fornendo sontuosi barili agli europei. Per questo le sue prime due bottiglie, distribuite dall’italiana Velier e dalla francese Maison du Whisky, rappresentano la fine del colonialismo, i Caraibi che riprendono in mano il loro destino, la chiusura di un cerchio iniziato con Cristoforo Colombo che porta la canna da zucchero nelle Indie Occidentali e proseguito con lo schiavismo e i pirati. Quale miglior modo di celebrarle di un viaggio nel tempo?
L’idea è venuta a Luca Gargano, che di Velier è il proprietario, il padre e l’anima, e che del rum è un sacerdote scanzonato e appassionato, nonché un collezionista da 40mila bottiglie o giù di lì: aprirne una per ogni secolo, dal XVIII in poi. Harewood 1780 dalle Barbados, Saint James 1885 e Bally 1924 dalla Martinica, Skeldon 1978 dalla Guyana e Hampden 2018: un manuale non scritto di storia del distillato di canna. E dato che non capita tutti i giorni di sorseggiare la Storia, vale la pena provare a raccontare di cosa sa. Ecco, la cosa incredibile è che non profuma di biblioteche ammuffite o di carta stantia. Il rum più vecchio mai certificato ha 238 anni ed è rimasto sepolto da polvere e ragnatele nella cantina di una tenuta nei pressi di Leeds fino a quando Mark Lascelles, ottavo conte di Harewood, non ne ha trovate 28 bottiglie durante un inventario nel 2011. Messe all’asta per raccogliere fondi per una Charity caraibica, sono state vendute a più di 8mila sterline l’una (anche se oggi ne valgono almeno 50mila) e quattro hanno arricchito la collezione Gargano. Quella di giovedì è stata la seconda mai aperta dopo quella stappata in Polonia e finita anche in microcapsule in orologi di lusso. Legittimo, ognuno mette il suo rum dove crede, ma a occhio il bicchiere è una destinazione più appropriata.
Poiché beviamo e mangiamo con la testa, da un rum del Settecento ci si aspetterebbe qualcosa di oscuro e venerando come una cripta. Invece arriva un liquido paglierino che scintilla come l’estate. Ma le sorprese non sono finite. Spesso le bottiglie antiche sono affascinanti, però il contenuto è evaporato o imbevibile. Invece al naso è clamorosamente pimpante, fresco come un adolescente. Succo d’ananas, banana, fieno, albicocca, miele millefiori: l’esuberanza dimenticata della canna da zucchero torna dal passato come il DNA dei dinosauri di Jurassic Park. È un fossile olfattivo, ma è vivo, cambia e respira. E in bocca è ugualmente giovane, vigoroso come i quasi 70 gradi esigono, ma capace di accarezzarti il palato con tocchi vellutati di noce moscata e una sapidità non comune. Il rum più vecchio del mondo è più a suo agio di chi lo degusta timoroso come se si fosse appena svegliato riposato e di buon umore.
Il resto del viaggio è in discesa, ma il panorama è vario. Il Saint James è il più vetusto, si dice abbia passato 67 anni in botte e sia il colore – un bruno scuro – sia i sentori austeri di caffè e cacao amaro consentono di dargli almeno del lei, se non addirittura del voi. Il Bally – primo millesimato della casa – è il più enigmatico, con curiose note leggere di violetta e fragola che coprono un corpo secco. Lo Skeldon, uno dei primi imbottigliamenti di Gargano, è spirito per bevitori più che abili, impetuoso nell’alcol come nel retrogusto di liquirizia pura e barbecue. Infine l’Hampden, rum contemporaneo ma prodotto in maniera arcaica, che in entrambe le versioni (46 e 60 gradi) raccoglie il testimone e invade narici e gole con zaffate inconfondibili di smalto e pop corn che lo fanno amare da chi ama le cose di carattere, come il whisky torbato. La serata è finita e Luca Gargano non smette di raccontare di palme, alambicchi e cardellini giamaicani. E mentre si incrociano chiacchiere e recensioni che lasciano il rum che trovano, tutti fanno strane smorfie con la bocca, sperando di incastonare una sensazione di onnipotenza che non tornerà: quella di aver assaggiato il passato con vista sul futuro.