Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 15 Sabato calendario

Intervista allo scrittore Julian Barnes

Il timore maggiore quando si incontrano personaggi come Julian Barnes uno dei maggiori scrittori contemporanei, è rimane delusi. Hai amato i suoi libri, dal Pappagallo di Flaubert a il Rumore del Tempo, da Il senso di una fine (vincitore del Man Booker Prize nel 2011). Pensi che sia maledettamente bravo, un mago nel cesellare le parole, un genio nello scandagliare l’animo umano. Quindi suoni alla porta della grande casa a Turfnell Park, Londra Nord, temendo la delusione. Il quartiere è residenziale, i giardinieri tosano siepi e bambini tirano calci a un pallone. Se non fosse per i modelli delle macchine, potremmo essere nell’Inghilterra degli anni Settanta, come i protagonisti di L’unica storia, un amore impossibile tra una donna di mezza età e un diciannovenne. La casa è fascinosa, macchie di umido, infissi scrostati, pareti verdoline e carta da parati a piccoli disegni, tappeti e stuoie lise, un disordine colto ed elegante. Libri e quadri ovunque. Nell’atrio in cima alle scale, un Pantheon di disegni e fotografie. A sinistra gli scrittori preferiti (in primis Flaubert); a destra i musicisti. Spiccano Rossini e Puccini. E Julian Barnes? Una gioia. Gentilissimo. Parla e ride tantissimo. Gli occhi sono fessure, il sorriso un po’ sghembo, sotto un naso imponente come la sua statura e le sue mani dalle dita lunghissime, come le gambe e i piedi. È tutto lunghissimo.
Ci sediamo in un salotto circondato di librerie e un biliardo coperto di libri. Mi sono ripromessa che se non lo fa lui – e non lo farà - , non citerò Pat Kavanagh, agente letterario e sua moglie per trent’anni, morta nell’autunno del 2008 di un tumore al cervello ad appena 37 giorni dalla diagnosi. Il racconto della perdita fulminante l’ha già fatto in Livelli di vita. Forse è solo una mia suggestione, ma la sua assenza aleggia ancora in questa casa, a dieci anni di distanza. E anche in questo libro. Che inizia così. «Preferireste amare di più e soffrire di più; o amare di meno e soffrire di meno?». 
Ha trovato una risposta?
«Penso che la maggior parte dei giovani direbbero amare di più. Poi ti assesti su uno stato di medio amore e media sofferenza. Uno dei vantaggi di essere scrittore è che puoi dare ai tuoi personaggi certezze che tu non hai. Non è necessario che tu debba decidere». 
Dove genera in lei l’idea di un romanzo?
«Da una situazione. In questo caso da una relazione che accenno appena nel Senso di una fine, di cui in quel libro non si dicevo niente di più». 
È vero che ognuno ha una unica storia?
«Chi lo sa. E infatti il titolo è cancellato. Paul cerca la corretta definizione dell’amore annotando frasi su un taccuino, ma poi le cancella. Forse non c’è una definizione giusta. E neppure una unica storia. Mi piace lavorare con queste piccole frasi, idee e azioni, che si ripetono nel testo e sono la struttura della scrittura». 
Scrive che il primo amore condiziona la vita per sempre.
«Questa è una delle poche frasi del libro con cui concordo. Il primo amore disegna un modello, quello da seguire o quello da evitare in futuro. Nel caso di Paul, così intenso che non è più riuscito ad amare. Il suo cuore è cauterizzato e lui avrà solo tante relazioni senza importanza. Succede a molte persone. Forse più agli inglesi che agli italiani . Ognuno crede agli stereotipi del proprio paese». 
Quanto c’è di autobiografico in questo libro?
«Difficile dirlo. Nei miei romanzi finiscono tre aspetti della vita emozionale. Le cose viste, quelle provate e quelle immaginate. Quando uno scrive diventa invisibile e tutte queste esperienze sono gli ingredienti di un’unica torta. Chi vuole sapere in quale percentuale ci sono io nei miei libri dovrà aspettare di leggere la mia biografia, quando sarò morto». 
Niente autobiografia?
«Una sorta di memoir l’ho già scritto, Nothing to be Frightened Of (“Niente di cui preoccuparsi”, non tradotto in italiano, ndr). Ma non so davvero se la scriverò. Se adesso dicessi che non scriverò mai una mia autobiografia, potrei autocontraddirmi nel giro di cinque anni. Quindi non dico niente. Mi contraddico spesso». 
Qual è lo scopo di scrivere romanzi dopo “Madame Bovary”? Ha trovato una risposta?
«Per me rimane il più bel romanzo che sia mai stato scritto. Quando inizi a scrivere ti chiedi: che diritto ho di regalare al mondo un altro romanzo? Per questo ho impiegato quasi otto anni a finire il mio primo. Fortunatamente per uno scrittore di oggi, Flaubert è morto. E anche Turgenev, Tolstoj, Jane Austen, George Elliot e la realtà è cambiata». 
Ma non tutto.
«No, certo. Le persone, i sentimenti, sono più o meno gli stessi. La superficie del mondo è cambiata. Siamo solo più informati. Quando arrivò la ferrovia nel 1840, Flaubert scrisse: “Ora sarà possibile per molte persone percorrere grandi distanze ed essere stupidi tutti insieme (scoppia in una risata, ndr). È lo stesso con Internet». 
Se lo immagina Flaubert con un iPhone?
«Penso che non ne avrebbe avuto uno. Era così fuori moda anche al suo tempo che non usava una penna stilografica ma una piuma d’oca». 
Anche lei scrive a mano, giusto?
«Adesso sono evoluto, ho un iPhone, un iPad e un iMac. Ma li uso solo per il mio lavoro giornalistico, quando devo fare recensioni. I romanzi li scrivo a penna e poi trascrivo a macchina. Ho una Ibm elettrica». 
I tre elementi fondamentali di un grande romanzo.
«La verità. La forma. E le emozioni. Tu vuoi raccontare storie che tocchino l’animo delle persone. Il mio editore olandese, mi ha scritto: ho letto il tuo libro seduto in un giardino nel sud della Francia, mangiando fichi dolcissimi e con un buon bicchiere di rosé e tre giorni dopo sono ancora depresso. Hai fatto un ottimo lavoro». 
Come è passato dal giornalismo ai romanzi.
«Scrivevo per i giornali per soldi. Ho scritto di politica, cultura, viaggi, ho fatto anche il critico televisivo e gastronomico. Poi i romanzi hanno iniziato a pagarmi i conti e continuo con il giornalismo perché mi diverte e mi piace avere questa doppia dimensione: l’immediatezza di una recensione e il tempo allungato di un romanzo. E come seguire due diete diverse».
Come riesce a mantenere i due registri senza che si influenzino a vicenda?
«Beh, ora mi faccio distrarre meno di una volta. Da giovane sono stato per cinque anni il corrispondente da Londra del New Yorker, un lavoro intenso che portava via molto tempo. E in quel periodo infatti ho scritto solo un romanzo. Breve per di più. Si impara a gestirsi e a conoscersi». 
Da giovane è stato autore di thriller, con lo pseudonimo Dan Kavanagh.
« È iniziata come una sfida. Una sera venne a cena un amico che aveva scritto un thriller in un mese. Io ci avevo messo più di sette anni a finire il mio primo romanzo. Mi dissi: lo posso fare anche io. Mi sono ritirato in campagna in un cottage isolato da tutto, con una scorta di cibo: in dieci giorni avevo la prima stesura e in due settimane l’ho corretto». 
Ne ha scritti tre, perché ha smesso?
«Mi annoiava avere sempre lo stesso personaggio. E poi dovevano essere l’aiuto finanziario mentre scrivevo Il pappagallo di Flaubert. Ma quando è uscito ha venduto molto meglio e quindi la situazione si è capovolta. Non aveva senso scrivere romanzi per mantenere i thriller». 
È vero che lavora dalle 10 alle 13 e dalla 17 alle 19?
«Si mente sempre su queste cose. Sono gli orari che vorrei fare. In verità ti svegli nel mezzo della notte e pensi a una frase che potrebbe funzionare molto bene. E devi decidere se svegliarti del tutto per annotarla o sperare di ricordala la mattina dopo. In genere su tre frasi una sola era buona». 
In questo romanzo lei usa la prima persona, poi la seconda e poi la terza. Strana costruzione.
«Quando Paul è giovane e innamorato, è naturale che parli in prima persona e al presente. Quando è vecchio e guarda il passato, è in terza persona, perché si vede con più distacco. Per l’età adulta, quella più dolorosa e complessa, ho pensato alla seconda persona. Si usa poco in inglese. Mi viene in mente questo libro… ». 
Si alza e torna con una copia sottolineata di Jay McInerney, Le mille luci di New York e inizia a leggere: «Sono le sei del mattino, hai idea di dove sei? Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora … Ecco, la seconda persona fa questo effetto. Lo scrittore prende sottobraccio il lettore e volevo che il lettore si sentisse coinvolto. Funziona in italiano?». 
Sì. Lei ha la fortuna di essere tradotto da Susanna Basso, bravissima. Le dà una voce perfetta. Come lavorate insieme?
«Non lavoriamo insieme. L’ho incontrata qualche volta, ma non ci sentiamo mai. Se c’è bisogno di chiarimenti, mi arriva una sua mail, tramite l’agente o l’editor».
Che tipo di scrittore è?
«Sono uno scrittore che cerca di scrivere di amore. Come scriveva Samuel Johnson in Un dizionario della lingua inglese del 1755: “Romanzo: un breve racconto, solitamente d’amore”». 
La frase che è in esergo a L’unica storia.