Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 15 Sabato calendario

Quando Fruttero e Lucentini incontrarono Ceronetti. Era il 1983

Sotto la volta rimbombante della stazione centrale di Milano abbiamo infine, al principio di quest’estate, incontrato per pochi minuti Guido Ceronetti, torinese emigrato e anacoretico col quale ci scambiamo da anni sporadici biglietti di solidarietà. Un comune amico lo stava aspettando allo stesso treno (da Torino) da cui eravamo scesi anche noi, e ci trattenemmo per conoscerlo. Dal fiume d’indistinta umanità emerse di lì a poco un’inequivocabile figura di viaggiatore, viandante, pellegrino, immerso in una sorta di spolverino-palandrana, bisaccia a tracolla, baschetto in testa, e lunghi capelli vagamente danteschi spioventi ai lati di un volto affilatissimo, sensibilissimo, dolcemente, ironicamente circospetto.

Il suo libro (Un viaggio in Italia, Einaudi) non era ancora uscito, ma ora che l’abbiamo letto con negli occhi quell’istantanea del suo autore (meglio, protagonista) colto per così dire in costume e in azione, ci chiediamo come veramente Ceronetti si spostò quel giorno da Torino a Milano. Aggrappato, c’è da credere, ai respingenti di un vagone, o accoccolato tra i colli del bagagliaio, o forse chiuso nella cabina del locomotore, a discutere col macchinista di erbe e tisane. E siamo comunque certi che non vide lungo il percorso ciò che vedemmo noi, passivi, banali utenti; ma salvò dal piatto orizzonte un vecchio gelso solitario, incastonò dentro una preziosa citazione un cane da pagliaio, fu lancinato a morte da una ciminiera e risuscitato dall’apparizione di una bambina a una finestra di Livorno Ferraris.
Qualcosa di clandestino, di abusivo, circola con lui in questa sua personalissima penisola, da Pontelagoscuro a Napoli, da Andezeno a Catania, davanti a quadri e sculture e facciate famose come nelle più disperate periferie, nei più dimenticati villaggi. Senza dubbio quest’impressione dipende in buona misura dal fatto che Ceronetti sdegna, anzi ignora, l’uso dell’automobile. Nelle sue peregrinazioni non ci sono pieni di super, gomme a terra, dissapori con la frizione, ma lunghe attese di corriere e coincidenze, infime stazioncine tra i grilli, camminate sotto la pioggia, fossi, siepi, muriccioli, cascinali dove il ramingo si ferma a chiedere un bicchier d’acqua, un uovo.
Una simile condizione di appiedato produce automaticamente peripezie e sospetti. Chi è costui che osa aggirarsi nel fragoroso regno dei motori sulle sue suole blasfeme? Una spia? Un ladro? Un piromane? Un untore? Come minimo, un anacronistico guastafeste, uno che sputa nel bel piatto pieno della vita moderna. Poeta! poeta! gli gridano da una macchina in corsa; ma altre volte sono meno gentili, lo tengono prigioniero nel cimitero di Cuneo, lo cacciano dal Casinò di Sanremo, lo apostrofano aspramente in bettole e locande, gli chiedono i documenti, gli danno la baia come a Jean-Jacques. 
L’alimentazione di questo errabondo vegetariano non è del resto fatta per attirargli le simpatie degli osti: broccoletti, ceci, zuppe, ricotta, miele, fichi secchi, infusi vari, sono un insulto al menù turistico, un pericoloso gesto di sovversione. E se tutti facessero come lui? trema l’albergatore sbattendogli davanti quelle magre ordinazioni.
Ostilità, disgusto, ribrezzo sono impietosamente ricambiati dallo scorticato voyeur. «In treno cambio carrozza perché c’è gente che mi dà nausea...» confessa. 
C’è il malignissimo sortilegio turistico che cancella ogni rapporto con la realtà: nel turismo non esistono né la vita né la morte, né la felicità né il dolore; c’è soltanto il turismo, che non è la presenza di qualcosa ma la privazione, a pagamento, di tutto». La marcia di questo romeo («E se fossi l’ULTIMO viaggiatore letterario in Italia?») è dunque sempre travagliata, controcorrente; più che un viaggio, è una via crucis lungo stazioni di crescente volgarità, truculenza, rumorosità, bruttezza, che (menomale) stimolano il genio di Ceronetti per l’invettiva incandescente, la sarcastica zampata, l’enormità provocatoria.
La «vita vera» che Ceronetti va amorosamente evocando, cercando e talvolta trovando su e giù per l’Italia, ha un profilo medievaleggiante: antichi e rari mestieri sopravvissuti alla tecnica, lapidi funerarie, ospedali e ex-manicomi, ossari, carceri, suore, esorcisti, zingari, pazzi, orti, casupole, stradette, qualche fiera di paese col «ballo liscio», qualche processione. Un mondo di stenti e fatiche, di umili eroi ingobbiti dai sacrifici, rassegnati a cicli di vita sempre uguali, gli pare preferibile alla rettilinea maledizione della Storia, alla nevrosi del Progresso. Si entusiasma per la Piccola Casa della Divina Provvidenza, vagheggia di dedicarsi agli ammalati, ai vecchi, ai sofferenti (solo chi soffre si salva dal generale delirio di inautenticità), è perfino tentato di ritirarsi asceticamente in qualche romitorio (ma subito il dubbio: «Dove trovare un convento silenzioso, senza televisore?»).
L’obiezione è che Ceronetti deve «esagerare» perché è in pratica il solo a gridare in un deserto di effimeri compiacimenti; che la sua voce sarà comunque inascoltata anche da quanti vedono frammentariamente, e combattono alla spicciolata, i mille difetti, i mille mali del nostro Paese. Il fatto è che Ceronetti vede il Male nel suo insieme, e lo giudica radicale, irrimediabile, definitivo. 
La catastrofe c’è già stata e tutti noi non siamo che dei superstiti, consapevoli o inconsapevoli. «Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilità del mondo», ci concede il fin troppo consapevole Apemanto nazionale. E ci avverte: «Non per tutti, solo per i nobili, per divertirgli un poco la pena, scrivo. I nobili del dolore, del pensiero, della malattia, della fragilità... Per loro sarò andato qua e là in cerca di un’Italia che fosse un segno e mandasse un suono, umanamente percepibile».
Poi si compra una rosa, un crisantemo, da mettere in un bicchiere nella sua camera d’albergo e contemplarlo mentre si cuoce i suoi broccoletti e i suoi tre fichi.

(articolo del 1983)