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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Daniele De Rossi

Daniele De Rossi, nato a Ostia (Roma) il 24 luglio 1983 (35 anni). Calciatore, di ruolo centrocampista. Giocatore-bandiera della Roma, in cui ha completato la sua formazione nelle giovanili (stagione 2000/2001) per poi passare alla prima squadra (2001/2002), e di cui dal 2017/2018 è capitano, avendo ereditato la fascia da Francesco Totti (dopo il cui ritiro De Rossi è diventato anche il giocatore più fedele d’Europa, non avendo mai cambiato squadra): in giallorosso ha vinto due Coppe Italia (2006/2007, 2007/2008) e una Supercoppa italiana (2007). Membro della Nazionale maggiore dal 2004/2005, dopo essere passato per le giovanili (Under-19, Under-20, Under-21) e per la Nazionale olimpica: in azzurro ha conquistato il campionato europeo Under-21 (2004), la medaglia di bronzo al torneo olimpico (2004), il campionato mondiale (2006), il secondo posto al campionato europeo (2012) e il terzo posto alla Coppa delle confederazioni (2013). «Vincere un mondiale è indimenticabile, ma io non nasco tifoso dell’Italia. Nasco tifoso della Roma. Da bambino sognavo lo scudetto. Ci stavo dentro, a quel sogno, era a mia misura, mi sembrava possibile. Poi è finita che ho vinto il mondiale e che lo scudetto sto ancora ad aspettarlo». «Cambierei subito la vittoria del mondiale con una Champions League vinta con la Roma» • Figlio di Alberto De Rossi (classe 1957), a lungo calciatore professionista di Serie C, oggi allenatore della Roma Primavera • «Il mio primo ricordo non è un campo di calcio. È quello di una casa di Livorno dove papà giocava. Ricordo i giochini che facevo. […] Anche il primo stadio di cui ho memoria è quello di Livorno, per me era come il Maracanã. I primi ricordi ce li ho legati a quella città, dove papà ha vissuto momenti felici» (a Chiara Gamberale). «Non mi è mai mancato niente, ma non abbiamo mai navigato nell’oro: mio padre giocava a calcio in Serie C, mia madre era la segretaria del presidente dell’Eni. Il primo choc l’ho avuto a sette anni e mezzo quando è arrivata mia sorella, e l’altro piccolo choc era spostarsi per seguire mio padre. […] In realtà quando penso alla mia infanzia penso soprattutto alla felicità. E al fatto che ho iniziato presto a giocare a pallone. […] Da ragazzino ero ancora un po’ confuso, mi piacevano tanto la pallavolo e il basket. Ero sicuro che avrei fatto lo sportivo, ma dovevo orientarmi. “Farò il calciatore come lavoro, potrò permettermi di campare col calcio” l’ho pensato anni e anni dopo». «Il pallone c’era sempre anche tra i miei amici: sempre lo stesso il percorso. Parlo di Ostia, io sono di lì. […] Lì a Ostia non è poi che ci fossero tanti campetti, anzi. Però avevamo le pinete, così le porte le facevamo con dei pezzi di tronchi o magari con un albero e l’altro palo era uno zaino. Non sempre avevamo il pallone, ma andava bene pure una pigna, ricoperta di carta e con un po’ di scotch, così non ci facevamo male ai piedi. Era quello il nostro stadio, poco lontano da scuola, da mia nonna: là giocavamo. E poi c’è il mare, così c’era la spiaggia: quando non era stagione giocavamo lì, e così facevamo beach soccer, come si dice adesso. Con la scuola calcio ho cominciato che avevo sui 5-6 anni, con l’Ostia Mare. Un anno siamo stati poi a Sarzana: c’era mio padre che era andato in C con la Sarzanese; anche lì ho fatto il settore giovanile, per tornare poi a Ostia (mio padre aveva deciso di andarci, facevamo allora la Serie D). Lo capisco meglio adesso, quanto abbia voluto dire aver cominciato avendo dei bravi insegnanti, che hanno dedicato tempo a far tecnica, a farci proprio giocare. […] Avevo poi nove anni quando mi prese la Roma, ma io non ci andai, non volli farlo: quel che volevo era stare con i miei amici. […] L’anno dopo però ci volevo andare, ma fu la Roma che quella volta decise di non prendermi, e ci stetti male. Giocavo proprio in tutto un altro modo di adesso: un po’ un trequartista, quello che aveva dei colpi, insomma, il 9 di maglia. Alla Roma così andai che avevo 12 anni, anche un po’ spaventato, ma mi intrigava questa cosa. A spiegarmi un po’ le cose ci pensò mio padre, a dirmi che dov’ero ero il più forte, ma che alla Roma li avrei trovati tutti forti, e che mi preparassi. Sono così andato, pronto ad accettare quel che veniva: non avevo né sogni né pretese, tipo “io, in panchina, non ci voglio stare” eccetera. In effetti giocavo poco, specie i primi anni. Ricordo che in quel torneo importante nemmeno venivo convocato, e questa è stata una parte dolorosa: mio padre a dirmi di non mollare, io che me ne sarei anche tornato all’Ostia Mare, ma c’era anche il fatto che mi trovavo bene con i miei compagnetti della Roma. La scuola la facevo a Ostia, e, dato che i miei lavoravano, a pranzo andavo sempre da mia nonna, che mi dava pure un panino per dopo l’allenamento. A turno c’erano dei genitori a portarci, e questo è andato avanti sino ai 18-19 anni: avevo già un contrattino, che era comunque già più di quel che uno prende a lavorare normalmente. Ho preso la patente e la mia prima macchina, una Classe A: quanto l’ho amata. […] A scuola non ero bravo, ma non ero nemmeno di quelli che dicono che fa schifo. […] Avevo scelto un liceo linguistico, […] però non sono riuscito a finire: in prima superiore sono stato anche bocciato, poi ho continuato ma a 16-17 anni ero già con la prima squadra: troppe assenze. Ho provato pure con una scuola privata, ma anche lì mi hanno fatto notare che non c’ero quasi mai, e così ho proprio smesso. Questo di non avere il diploma è un fatto che ha cominciato a darmi fastidio nel tempo, non subito, e ora un po’ mi rode. Ricordo che a casa quella mia bocciatura fu una specie di dramma, specie per mio padre. […] È stato verso gli Allievi nazionali che ho cominciato a pensare al calcio in modo diverso. […] È stato allora che mi sviluppai fisicamente, mi cambiarono pure ruolo e iniziai a crescere come calciatore. Cominciai così a pensare che forse ci sarei potuto stare anche io, ma non certo per quel che poi è capitato. Già una carriera come mio padre in Serie C mi pareva tanto, arrivare a guadagnarci giocando era il massimo, e, insomma, le mie aspettative erano più basse di quella che è stata poi la realtà. Le cose sono cambiate poco alla volta» (a Pino Lazzaro). «Se dico Arezzo-Roma, Allievi nazionali, dove va la mente? “Ricordo che mi scaldavo con quello che ora è uno dei miei migliori amici, Emanuele Mancini. Perdevamo 1-0, chiamano, fischiano: ‘Entra’. Emanuele pensava che dicessero a lui. Invece dicevano a me. Entro: faccio uno o due assist, cambio la partita, vinciamo 2-1. Ma la cosa che più ricordo è che in quella partita viene espulso il nostro capitano in maniera ingiusta. Difendiamo il 2-1 fin quasi all’ultimo minuto, quando un difensore centrale sbaglia un passaggio, io rincorro l’avversario lanciato a rete, lo strattono, lo stendo, l’arbitro fischia fallo ma non mi butta fuori perché palesemente si è sbagliato prima. Ecco: io entro, cambio la partita, non vengo squalificato, mentre il mio compagno sì, e io dalla partita dopo prendo il suo posto a centrocampo. Da allora quell’allenatore non mi ha più fatto uscire. Era Mauro Bencivenga. Gli devo molto, gli devo l’aver capito prima di tutti quale fosse il mio ruolo. Anche prima di me”. Qual era stato il ruolo fino a quel momento? “Mah, non si è mai capito. La mezza sega, credo. Trequartista o largo a sinistra. Non ero velocissimo, ma avevo il piede, mettevo la palla, l’assist, entravo e poi si intravedeva quello che si vede adesso: il tempo di inserimento, che ho avuto per tutta la carriera. Mi inserivo bene, facevo gol”. Trenta metri in meno e nasce De Rossi… “In quel ruolo davanti alla difesa ho iniziato a giocare sempre. Prima ero un ibrido. Un giorno Ugolotti, un allenatore col quale giocavo poco, stava facendo un allenamento e disse: ‘I difensori vanno lì a fare questo, i centrocampisti vanno con il preparatore atletico, gli attaccanti vengono con me’. Poi si gira, mi guarda e fa: ‘E tu dirai: e adesso io ’ndo cazzo vado?’. Non si era capito se ero un difensore, un centrocampista, un attaccante. Mi hanno messo davanti alla difesa e non sono mai più uscito”» (Giuseppe De Bellis). Esordì in giallorosso direttamente in Coppa dei campioni il 30 ottobre 2001, mandato in campo da Capello in sostituzione di Tomić nel secondo tempo della partita Roma-Anderlecht (1-1). Per il debutto in Serie A dovette invece attendere il 25 gennaio 2003 (Como-Roma 2-0), per ottenere poi il 10 maggio successivo la qualifica di titolare e il suo primo gol nella massima serie (Roma-Torino 3-1). Nel frattempo De Rossi aveva mosso i primi passi anche in azzurro, debuttando il 20 novembre 2001 con l’Under-19 (Italia-Bielorussia 2-0) e poi progredendo fino ad approdare alla Nazionale maggiore il 4 settembre 2004 (Italia-Norvegia 2-1), segnando anche un gol. «È stato tutto velocissimo: prima l’Europeo con l’Under 21, poi la medaglia di bronzo alle Olimpiadi, poi, a 22 anni, boom: campione del mondo. Quella è stata forse la fregatura: non aver continuato a vincere. Forse se lo aspettavano tutti. In quei momenti avevo il telefono che scoppiava. Ogni giorno c’era una squadra nuova, ogni giorno c’era qualcuno. Mi dicevano: “Questo allenatore ti sta chiamando e ti vuole parlare, c’è questo presidente che ti fa il contratto in bianco e puoi mettere la cifra e andare quando ti pare”. Io la vivevo come una cosa bellissima, però poi alla fine c’era questo sentimento forte che mi rendeva anche abbastanza conscio del fatto che forse avrei vissuto male il distacco. […] Questa scelta viene letta e vista come una cosa di grande altruismo, di amore per la maglia, di amore per i tifosi. Ma è una parte della verità. L’altra è che la mia scelta è stata molto egoista, perché io avevo proprio bisogno di giocare con la Roma. Ho il piacere fisico ed emotivo di giocare con questa maglia». A lungo chiamato «Capitan Futuro» in quanto vice di Francesco Totti, in seguito al suo ritiro (28 maggio 2017) ha finalmente conquistato la fascia. «Messo spesso in discussione in passato, il giocatore sembra stia vivendo una seconda gioventù, e di questo s’è accorto anche il tecnico, Eusebio Di Francesco, che lo scorso anno ha chiesto a gran voce il rinnovo di contratto, che era in scadenza. Tanto che si era parlato anche di un interesse dell’Inter, con Luciano Spalletti che lo avrebbe voluto di nuovo al suo servizio. Fino a due anni fa sembrava di assistere alla naturale parabola discendente di Daniele De Rossi. […] Con gli Europei disputati sotto la guida di Antonio Conte, però, il giocatore sembra rinato, giocando due stagioni al di sopra delle aspettative, in particolar modo l’ultima, che ha visto i giallorossi arrivare in semifinale di Champions League dopo aver eliminato squadre come l’Atletico Madrid alla fase a gironi e il Barcellona ai quarti di finale» (Armando Areniello). Nel maggio 2017, dopo qualche esitazione, ha rinnovato per un altro biennio il contratto con la Roma (secondo indiscrezioni, a 3 milioni di euro a stagione più bonus). «Ho sempre pensato che sarebbe molto bello se io finissi a Roma. Mi piacerebbe vivere, con le dovute proporzioni, una giornata come quella che ha conosciuto Francesco il 28 maggio. Sarebbe bello vivere un saluto così intenso con i tifosi, anche per me. Non so quando, non so come. Allo stesso tempo però avverto forte il desiderio di vivere un’esperienza altrove. Anche perché sedici anni di Roma sono come trentadue anni da un’altra parte» (a Walter Veltroni). «Vedo tanti giocatori dire: io l’allenatore mai, quando smetto sto in vacanza una vita. Poi, dopo sei mesi, farebbero qualunque cosa per allenare anche in Serie C. Io, invece, non lo escludo. Sono fortunato. Ho avuto due tra i dieci allenatori migliori del mondo: Spalletti e Conte. Il terzo è Luis Enrique. Con un altro, Guardiola, ho giocato, e se dovessi prendere una panchina chiederei di andare a guardarlo per imparare. Sì, l’allenatore potrebbe essere una cosa che mi piacerebbe fare. Non subito, ma con i tempi giusti mi potrebbe interessare» • Sanguigno nel gioco, in carriera ha collezionato complessivamente quindici espulsioni (per lo più dirette). Due le più gravi: «La gomitata a McBride nella seconda partita dei campionati mondiali in Germania nel 2006: quattro giornate di squalifica e torneo virtualmente saltato. Ma […] De Rossi subentra al posto di Totti nel secondo tempo della finale contro la Francia, prendendosi la responsabilità di calciare e segnare uno dei cinque rigori che consegnano la coppa del mondo all’Italia. Dopo dieci anni, De Rossi ripete la follia del cartellino rosso, contro il Porto questa volta (lasciando così la Roma in dieci uomini e vedendo sfumare la qualificazione alla Champions League)» (Giuseppe Siragusa) • Una figlia, Gaia, nata nel 2005 da Tamara Pisnoli, che sposò l’anno dopo, per poi separarsene nel 2009; nel 2008, quando il padre della donna, il pregiudicato Massimo Pisnoli, fu barbaramente ucciso, De Rossi gli dedicò la doppietta realizzata in azzurro contro la Georgia, attirandosi critiche da parte della polizia (oggi la Pisnoli è indagata per usura, estorsione, rapina e lesioni gravissime). Altri due figli, Olivia Rose (2014) e Noah (2016), dall’attrice Sarah Felberbaum, sposata nel 2015 • «Parla poco e parla bene. Forse paga anche questo. Non dice cose banali, non scivola nel luogo comune, non solletica gli istinti. Lui semmai è cattivo in campo: la gomitata, il fallo, la reazione. È pallone, vivaddio. Si prendono e si danno» (Beppe Di Corrado) • «Il mercato fa i prezzi. Il mercato del calcio muove cifre stratosferiche, i calciatori sono i primi attori di questo circo. È normale che ci siano questi stipendi. So che non è bellissimo, ma non provo sensi di colpa». «Sono un testardo: anche se gioco a tressette voglio vincere». «Sono un tifoso che va in campo e non in curva».