Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita, nato a Roma il 27 luglio 1932 (86 anni). Sociologo. Cofondatore e presidente del Censis (Centro studi investimenti sociali). Già presidente del Cnel (1989-2000). «Di tutti gli appellativi che le attribuiscono (“il monaco delle cose”, “l’arcitaliano” e via dicendo), quale preferisce? “‘Il monaco delle cose’. Rende bene l’idea della devozione e della fedeltà alle cose che vengono studiate. Mi potrei firmare così, come Giuseppe Gioachino Belli si firmava ‘Peppe er tosto’”» (Vittorio Zincone)» • «Mia madre Maria Nota venne a Roma nel 1929 da Pontecorvo, avendo vinto il concorso comunale come maestra elementare. Mio padre Raffaele, cassiere al Banco di Santo Spirito, la raggiunse. Io nacqui nel 1932. Abbiamo sempre vissuto nel quartiere San Giovanni. La finestra della mia camera dava sulla basilica. Io studiavo dai gesuiti, al liceo Massimo. C’erano i bombardamenti. Allora, si formò ai Giardini dell’Alberata un gruppo di 40-50 bambini che sarebbero diventati adolescenti e, poi, adulti. La metà maschi, la metà femmine. Dai 10 ai 20 anni, abbiamo trascorso insieme ogni momento, tranne le ore di scuola e tranne la domenica, riservata alla messa e alla famiglia. Vivevamo in strada». «I miei amici si chiamavano Scoparo, Bucalice, Amleto Figa Lunga. Ci rubavamo le donne. Ci picchiavamo. Tornavamo a giocare a pallone insieme. A dieci anni avevamo conosciuto la guerra. A dodici la paura fottuta dei tedeschi. A quattordici tutti a fare la comparsa a Cinecittà. Ogni frase, una parolaccia. “Va’ a morì ammazzato”. “Fijo de ’na mignotta”. La vita brulicava. I miei dicevano con orgoglio: "Siamo ceto medio". Io, però, sono cresciuto come un popolano, in strada. Quando ho conosciuto mia moglie, sono diventato borghese. È lei che mi ha insegnato il valore della rispettabilità, il tono del comportamento, l’ordine come stile di vita» (a Nicola Mirenzi). «Dopo l’Alberata e il liceo Massimo, De Rita studia Legge a Roma e, dal 1951 al 1955, frequenta il Movimento di collaborazione civica: “Nel castello di Sermoneta e nel palazzo di via Botteghe Oscure, la Principessa Marguerite Caetani organizzava corsi di educazione degli adulti alla democrazia. L’ispirazione erano gli ideali massonici. Dietro c’erano gli Stati Uniti e i loro servizi segreti. Per ragazzi cresciuti sotto il fascismo e durante la guerra, fu utilissimo”» (Paolo Bricco). Nel 1955 entrò allo Svimez, «il più illustre centro studi del dopoguerra, dove presero forma la cultura dello sviluppo, la Cassa per il Mezzogiorno, il Piano Vanoni e l’esperienza di programmazione; e dove spuntò all’improvviso, nella metà degli anni Cinquanta, e sette o otto anni prima della introduzione della prima cattedra italiana di Sociologia, una sezione sociologica. Fu una iniziativa pensata e gestita da Giorgio Ceriani Sebregondi: un personaggio di grande livello intellettuale prematuramente scomparso nel 1958, a soli quarantuno anni. […] Io fui assunto come generico laureato in Giurisprudenza; ma Sebregondi, che pensava in grande, volle provocarmi a pensare anch’io in grande, prospettandomi un impegnativo programma: dobbiamo anzitutto fare tanta ricerca sociale – diceva – per far capire che l’approccio sociologico è importante quanto quello economico; dopo penseremo a redigere un rapporto sociale che accompagni la “Relazione economica generale” (l’unico testo di reporting di quel periodo); successivamente penseremo a costituire un centro studi tutto dedicato alla ricerca e alla politica sociale; infine, se ci va bene, potremo pensare di progettare e proporre un ministero degli Affari sociali. Ho ripercorso spesso questo asse di progressione (espressione tutta sebregondiana) da quando, dopo il ’58, sono rimasto solo a condurre la sezione sociologica; e specialmente dopo il ’63, quando, licenziato dallo Svimez con tutti i miei collaboratori, ho creato e gestito (con Gino Martinoli e Pietro Longo) il Censis, dando una faticosa attuazione al secondo dei mandati originari». A licenziarlo, il 6 novembre 1963, era stato Pasquale Saraceno (1903-1991), cofondatore e presidente dello Svimez. «Mi scrisse una lettera in cui mi diceva che non reggeva più il peso dell’azienda. Da qui la decisione di liquidare il nostro gruppo, anche se per me aveva tenuto un posto. A quel punto ci riunimmo: liberi tutti o una nuova avventura? Andai da Saraceno: "Se lei ci cede i contratti, ci mettiamo in proprio". Lui accettò». «Il Censis nacque allora. A incoraggiarmi fu Tommaso Morlino, l’intellettuale di Moro: “Lascia perdere la programmazione, fai fenomenologia”. Dalle idee alle cose. Quando, quattro anni dopo, il ministero del Bilancio pagò i debiti arretrati con il Censis e andammo a festeggiare al ristorante, da George’s, volle venire anche Saraceno: avendoci licenziati, si sentiva un po’ fondatore anche lui. La freddezza però rimase. Al suo funerale mi dissi che non avrei potuto comunicarmi se non l’avessi perdonato. Perdonai. Subito dopo sua moglie Giuseppina, che era la sorella di Vanoni, mi disse che suo marito apprezzava i giovani ma sapeva anche essere cattivo con loro. “Specialmente con lei”, aggiunse, facendomi una carezza» (ad Aldo Cazzullo). Con la fondazione del Censis, «ero diventato un imprenditore privato, senza alcuna copertura pubblica. Ma, pur da imprenditore privato, mi misi subito all’opera per coagulare l’idea di un rapporto annuale sulla nostra situazione sociale. Non c’era più da competere con l’ormai stanca “Relazione economica generale”, ma intanto era esplosa, per merito di Guido Carli, la saga delle “Considerazioni finali” del governatore della Banca d’Italia. Misurarsi con esse, con la loro enorme base documentaria e il loro straordinario impatto mediatico, appariva una demenziale tentazione narcisistica, ma alla fine ci incamminammo comunque nell’avventata impresa. […] Mettemmo insieme un nostro progetto di poche pagine, da veicolare possibilmente presso le due sedi pubbliche che avrebbero potuto avere interesse a sponsorizzare l’iniziativa: la Segreteria generale della Programmazione e il Cnel. La Segreteria della Programmazione aveva a quell’epoca altro a cui pensare (la stesura e l’implementazione del primo, e poi unico, Piano quinquennale), e non avrebbe potuto darci udienza. Andammo allora dal presidente del Cnel Campilli, scortato dai suoi due uomini di fiducia, Domenico De Sossi e Giuliano Graziosi. Gli misi davanti il progetto e gliene spiegai il senso sociopolitico. Campilli sfogliò con calma le paginette, chiese qualche chiarimento, domandò quanto la cosa potesse costare. Io dissi timidamente: “Dieci milioni” (di lire). Poi, dopo un pensoso silenzio, disse solo una frase, con il suo tono da generone romano: “Se po fa’”, si può fare. […] Così, nell’autunno del 1967, comincia l’avventura del Rapporto Censis». «Fu importante il passaggio dalla pianificazione e dalla previsione a lungo termine – questa era la cultura dello Svimez – all’analisi dei fenomeni sociali. La svolta avvenne sul finire dei Sessanta. Il nostro direttore si trasferì a Prato, e fu lì che scoprii l’economia sommersa. Tornato a Roma, pensai: "Ammazza, proviamo a vedere se pure qua ci sta il lavoro nero". Non fu difficile scoprirlo. Il direttore dell’Atac mi raccontò del tentativo di spostare uno degli autisti più anziani al turno serale, dalle 18 a mezzanotte. Una tragedia. Era uno di quelli che provvedeva ai fochetti delle prostitute a Tor di Quinto. Cinquemila lire a fochetto. Con una notte di lavoro guadagnava quanto una settimana sull’autobus. […] Con gli anni Settanta cominciava la grande fenomenologia italiana. In quel decennio s’è raddoppiato lo stock delle aziende: da 490.000 a oltre un milione. Tutti facevano piccola impresa. […] E cominciava la grande avventura di Cernobbio. C’erano Agnelli, Schimberni, Berlusconi che suonava il piano e cantava. Io stavo al tavolo con Andreatta, Colombo e Prodi. Quando arrivavo, l’Avvocato mi accoglieva: "Ecco l’amico degli stracciaroli". Ero considerato altra cosa rispetto a loro, però stavo lì. Ero ammesso come uno che poteva parlare dell’Italia alla stessa stregua di Prodi. […] Quando nel ’78 uscì il nostro rapporto sul sommerso, la piccola impresa e il localismo, mi telefonò Acquaviva: "Craxi vuole che gli spieghi cosa hai scritto". Io vado da lui. "Senta un po’, ma lei ci crede davvero, a tutta questa vitalità dell’economia italiana?". "Beh sì, io ci credo, che vuole che le dica?". Mi credette: sul localismo e sul sommerso costruì la sua onda lunga. Era un’Italia ricca di fermenti. Per noi che dovevamo raccontarla, una vera manna. Tra gli anni Ottanta e Novanta il made in Italy si è innamorato della finanza. L’immagine prevaleva sui contenuti: a me non piaceva. […] Noi preparammo un rapporto sulla "società dello spettacolo". Mi ricordo che a un convegno di Mediaset Gianni De Michelis partì in tromba: "Dove sono questi imbecilli che dicono che siamo società dello spettacolo?". Lì ci fu la rottura con il craxismo. Buona parte delle imprese, che aveva scelto la finanza, cominciò a guardarci con sussiego. Ci consideravano, non dico superati, ma "scarpari di Fermo". Poi è accaduto un paradosso. La fine della Prima Repubblica avrebbe dovuto comportare anche la fine d’un certo modo di fare cultura: io ero considerato cattolico, democristiano – non lo sono mai stato ma, insomma, portato alla mediazione… Invece l’arrivo della Seconda Repubblica ci ha restituito spazio. Nel senso che è aumentato il casino e c’era bisogno di noi. Il nostro nemico è solo un potere molto vigilante. Ma, fin quando c’è disordine e vitalità, noi non abbiamo problemi» (a Simonetta Fiori). «Tra le ragioni del vostro successo c’è stata l’invenzione di un lessico: "economia sommersa", "localismo industriale", "cetomedizzazione". Come nascevano queste espressioni? “L’esigenza era di dare un nome alle cose. Venimmo accusati di fare, con i nostri rapporti, folclore economico. In realtà cercavamo di interpretare le pulsioni profonde del Paese. E spesso ci riuscivamo”» (Antonio Gnoli). Anche negli ultimi anni ha confermato la sua rabdomantica sensibilità di profondo conoscitore dell’ethos italiano. Nell’autunno 2011, infatti, quando a Palazzo Chigi Monti subentrò a Berlusconi, profetizzò a Mattia Feltri: «Credo che le élite sappiano governare e spero che ci riescano, altrimenti c’è il pericolo di scuotere le piazze. […] Sto parlando […] di una cultura populista e nazionalista che a naso nel Paese c’è e periodicamente si sfoga […] nelle piazze più stupide. Il governo che sta nascendo non lo amo, ma bisogna crederci, altrimenti […] al posto di Berlusconi potrebbe spuntare un altro leader capace di instaurare col popolo il medesimo rapporto, un leader che avrebbe nell’orgoglio nazionale e popolare i suoi riferimenti, che condurrebbe gli italiani a reagire all’eterodirezione e a contestare il sistema in quanto tale». E ancora nel dicembre 2017, nel 51° Rapporto Censis, individuò in «rancore» la parola-chiave relativa alle pulsioni sociali del momento, per poi vedere confermata la sua diagnosi alla luce dell’esito elettorale: «Negli ultimi due anni il rancore si è visto dappertutto. Non solo nella dimensione elettorale, ma anche in tv, sui giornali, nella gestione degli scandali e para-scandali. […] La discontinuità del voto del 4 marzo deve essere portata avanti, non può tornare tutto alla normalità il giorno dopo le elezioni. Di Maio e Salvini, i veri vincitori, hanno il dovere di continuare a cavalcare, anche a costo di sbattere la testa» (a Francesco Bechis) • Polemiche, nel 2014, quando nominò il figlio Giorgio segretario generale del Censis. «Conta il brand De Rita. Ci sono 50 anni di De Rita insieme alla parola Censis e non si può pretendere di mantenerlo? È una strategia voluta e precisa mantenere insieme il binomio De Rita e Censis». «Chi se ne frega, se qualche giornalista ha avuto da ridire» • Numerose profferte di candidature (a sindaco di Roma, ministro, presidente del Consiglio), puntualmente declinate. È stato spesso citato anche tra i possibili senatori a vita e presidenti della Repubblica (nel 2006 ottenne diciannove voti, nel 2013 uno). A proposito della sua candidatura al Quirinale nel 2013, ha confessato a Giorgio Dell’Arti: «Sapevo che il mio nome circolava… Io vado sempre in vacanza dalle parti del Monte Bianco e mi metto di fronte a lui a contemplarlo, e ho fatto così pure questa volta. Ce ne siamo stati per un pezzo uno di fronte all’altro a guardarci negli occhi: io guardo negli occhi il Monte Bianco e il Monte Bianco guarda negli occhi me… Stavamo così a guardarci negli occhi, e a un certo punto il Monte Bianco mi ha detto: “Come te vedo piccolo…”. Il Monte Bianco parlava perfettamente in romanesco» • Vedovo dal 2014 di Maria Luisa Bari, l’amore di una vita, con cui ha avuto otto figli (sei maschi e due femmine). «"I figli sono venuti per allegria. Era un’avventura divertente. E in questo avevano ragione i nostri genitori, che ci trattavano da incoscienti. […] Primo figlio, grandi festeggiamenti al bar del tennis. Secondo figlio, giusta soddisfazione. Terza gravidanza, gelo totale. “Ma siete matti? Come pensi di pagare gli stipendi del Censis?”, mi apostrofò mio padre. Al quarto, sempre al solito caffè, scoppiò la tragedia: mia suocera mi trattò come se fossi il violentatore di sua figlia. Tornati a casa, Maria Luisa scoppiò in lacrime: ma ti pare che debbano fare così?". E al quinto figlio? "Niente appuntamento al bar del tennis, ma un telegramma così concepito: se oggi siamo in sei a cantare mapin mapun, in ottobre saremo in sette a cantare mapin mapun. Stesso telegramma, con numerazione variata, per il sesto, settimo e ottavo figlio"» (Fiori) • Cattolico praticante. «“Il grande papa, per me, […] è stato Paolo VI, grande organizzatore dell’Istituzione e autore della più grande enciclica del secolo scorso: Populorum progressio”. Per lei, è più importante Cristo o la Chiesa? “La Chiesa. Nessuna istituzione vive due millenni se si fonda su una sola persona. La Chiesa è fatta di tantissimi uomini venuti dopo Cristo. Pietro, Paolo, Giovanni. E tutti i santi, i grandi papi come Giovanni XXIII, il pontefice della mia giovinezza. Certo, la Chiesa è stata puttaniera, corrotta, disgraziata, contestata. Ma è arrivata fino a noi. Un profeta, da solo, non ce l’avrebbe mai fatta”» (Mirenzi) • «Ho avuto una vita bellissima: una moglie straordinaria, otto figli, quattordici nipoti, un lavoro faticoso ma appassionante. Non ho nostalgie né rancori. Non sono un fatalista, ma un creaturale. Il Signore mi ha messo al mondo, e Lui mi verrà a prendere».