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 2018  agosto 09 Giovedì calendario

Un ritratto di Lilli Carati, la “bambola di velluto” della commedia italiana

Non che un altro cinema, anzi, “il” cinema l’avrebbe salvata, giacché il genere del caso si chiama exploitation e non sfruttamento, e la lingua è paternità. Eppure è lì, Oltreoceano, che tutto è già scritto, quattro anni prima che muoia, lì che sogno e preghiera vanno a braccetto, e cercano la vena buona: “La sai una cosa? Sei in assoluto la ragazza più bella che abbia mai conosciuto”, “La viola la mattina, la blu a mezzogiorno, l’arancione la sera, questi sono i miei tre pasti, brutto mostro!”, “Tu mi fai sentire una persona… sentire me stessa… e bella”, “Le fighette bianche sono brave a fare una cosa: a succhiarlo”. È il 2000, è l’opera seconda di Darren Aronofsky, è cult istantaneo e sempreverde, è Requiem for a Dream, e in un’altra dimensione, in un mondo parallelo al posto di Jennifer Connelly ci sarebbe, e ci starebbe, Ileana Caravati, in arte (e surrogati) Lilli Carati. Requiem per il suo sogno spezzato, precipitato tombale di un’età di mezzo: gli anni ’80 che trascolorano nella siringa, l’erotico per quasi tutti che trapassa con le luci rosse. Non diremo di quei carati posticci, della pietra grezza – e di altre pietre – e della sfaccettatura a mezzo cinema, ma Lilli Carati è cava e vetrina, sangue e diamante, e paga lei. Tutto.
Quando il cancro al cervello ha la meglio, il 20 ottobre del 2014, i fiori li porta Pietrangelo Buttafuoco: “Entra nel mistero della tomba e dice una cosa tipo: ‘Sono pronta per il sorriso’. È nuda alla meta, è morta. E sorride”, l’autopsia la firma Camillo Langone: “Lilli che era una bellezza da fiume e da lago, se l’avesse conosciuta Manzoni anziché del cielo avrebbe scritto del culo lombardo: così bello quando è bello”. È lei la ragassa, ma assecondando il romanzo sessista – quando sessista era un attributo e non un divieto – di Gianni Brera, prima veniva il corpo, e il corpo era la parte per il tutto: Il corpo della ragassa, libro nel 1969, film dieci anni più tardi, per la regia di Pasquale Festa Campanile, con Enrico Maria Salerno e Renzo Montagnani.
Un anno prima, togliendone due alla carta d’identità, Lilli professa di Avere vent’anni, e con lei Gloria Guida: dietro la macchina da presa Fernando Di Leo, la bugia di due – Guida è del ’55 – apre a scomode, e dunque censurate, verità per la commedia sexy. Tina, ovvero Lilli, non smobilita, (s’) apparecchia, e tra palco e realtà noi prendiamo posto: “Un maschio. Due maschi. Tre maschi. Quattro maschi. Cinque maschi. Sei maschi… Ah! Ammazza quanti maschi! Se ci mettiamo qua di sicuro si scopa!”. Arriveranno stupri e omicidi, ma il frame di un’epoca, il fermo immagine di un sentire diffuso è loro, sono Lilli e Gloria che ballano a Trinità dei Monti, che hanno vent’anni (e poco più) e ce li sbattono in faccia, sogno proibitivo e immagine-dinamite. A sottrarle a oblio e bigottismo fu nel 2004 la Mostra di Venezia, con Quentin Tarantino a plaudire.
Lilli arriva al cinema da anticipataria, nel 1975 appena diciannovenne affianca Adriano Celentano e Mariangela Melato in Di che segno sei diretto da Sergio Corbucci. L’aveva pescata, lenza e non strascico, l’anno prima il produttore Franco Cristaldi, intuendo dietro la fascia di Miss Eleganza, ravvisando oltre il secondo posto a Miss Italia un’icona profana. Lilli è bella e sfacciata, bellissima con licenza, ironica senza ritegno, sensuale con una terza “s” per variabile scollacciata: è la ragassa della suite accanto, residenza e non domicilio a ore, capace con uno sguardo appena di trascendere l’estrazione piccolo borghese in desiderio super partes.
Ci muori, dietro a Lilli Carati, ma anche quello lo vuole fare lei in prima persona singolare. Si prova ex cathedra, ne La professoressa di scienze naturali (1976) di Michele Massimo Tarantini, dove s’espone a un lubrico Alvaro Vitali; dodici mesi più tardi cambia registro, ma non il voto in condotta, con l’ennesimo chilometrico titolo di Lina Wertmüller, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, un talamo a tre piazze con Candice Bergen e Giancarlo Giannini.
Due lustri prima dell’epilogo, officiato a Induno Olona, Lilli si piazza davanti alle telecamere di Storie vere su Rai Tre, e si confessa in poesia e parafrasi: “Una vita da eroina, ma non le eroine classiche”; “Chiaramente. Il senso più chiaro, nel mio caso, non è l’eroina come eroina, ma l’eroina come stupefacente”.
“La chiamavamo la bambola di velluto, perché era piccolina, non tanto alta, ma molto bella. Aveva un corpo fatto bene, era proporzionata, molto sensuale”, ricordò Lino Banfi, che lui pure l’aveva conosciuta a scuola, ne La compagna di banco (1977).
Se il cinema non le piacque mai, Lilli fu prontamente e sprezzantemente ricambiata: superando in corsia d’emergenza – lo fece per procurarsi la droga – le commedie sexy, si trovò a recitare a oggetto. In principio fu il soft-core Lilli Carati’S Dream, poi una mesta e pornografica teoria, quindi eroina e cocaina, il carcere e due tentativi di suicido.
Al televisivo Stracult nel 2008 confessò la voglia di tornare a recitare, e dopo 24 anni di assenza l’avrebbe dovuto fare ne La fiaba di Dorian, regia di Luigi Pastore. La parte se l’è presa il tumore, senza però toglierle definizione e destino: “Una dea della bellezza – osservò Brera – dovrebbe morire giovane per non sfiorire, per restare inviolata nel mito, come certi poeti, pittori, musicisti prima del tramonto”. A Lilli Carati, all’anagrafe varesotta Ileana Caravati, non è riuscito niente, è riuscito tutto.