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 2018  luglio 17 Martedì calendario

Oscar Farinetti: «Io, il parroco e Marx»

Oscar Farinetti, lei nel 1968 aveva solo quattordici anni. Non sono pochi per definirsi un autentico sessantottino?
«Certo, ma non sono stato a guardare il movimento dalla finestra. Andavo a scuola, ovviamente, ma lì la mia parte l’ho fatta».
Andiamo per ordine. Nato e cresciuto ad Alba, provincia di Cuneo, figlio di un socialista nenniano, buone scuole.
«Frequentavo il liceo Govone, quello dove ha studiato Beppe Fenoglio. Ottimo istituto, un preside gentile e colto. Eppure io e altri non sfuggimmo all’istinto della lotta di sinistra. Ci organizzammo con scioperi e proteste».
Per esempio?
«Per esempio, poco prima che finisse la scuola, una volta tutti insieme in aula voltammo le spalle al professore di latino e greco: non volevamo studiare più la Grecia antica, bensì chiedevamo di approfondire le vicende della guerra in Vietnam».
E per il resto dell’estate?
«Non ci fermammo. Io frequentavo la Alba di sinistra, Carlin Petrini era già il nostro guru, per me è stato un maestro di lotta politica. Eppure non ho mai smesso di andare in parrocchia. Ricordo il prete, don Valentino Vaccaneo, uno che quando mi presentai da lui per dirgli una cosa tipo “basta con le preghiere, ho scoperto Il Capitale di Marx e ora non sono mica così sicuro che Dio esista”, mi diede una pacca sulla spalla, non si scompose e rispose: “Va bene Oscar, ma nel dubbio per favore continua a comportarti bene”».
Fu dunque un’estate tra Marx e un Salve Regina?
«Ma nella mia città di allora non era così strano. Alba era Medaglia d’oro alla Resistenza però è stata a lungo amministrata dai democristiani; si lavorava sodo ma si pregava regolarmente. Bra no, perché Bra era più per intellettuali. Tanto è vero che lì, anni dopo, fondarono Radio Bra Onde Rosse, con Petrini. Io andavo lì quando volevo parlare di politica e cultura e restavo ad Alba per parlare di lavoro. La faccenda dell’ottimismo non è un’invenzione: da noi ci si appassionava davvero al mestiere e si faceva tutto con molto entusiasmo».
A proposito di imprenditori, appena l’anno prima, nel 1967, suo papà aveva dato vita a UniEuro.
«Ecco, l’utopia della rivoluzione, in me, è sempre stata in qualche modo sfumata o arricchita, faccia lei, da un pragmatismo piemontese».
Suo padre, il mitico comandante partigiano Paolo. Come prendeva lui il suo attivismo politico giovanile?
«Ovviamente mi capiva. Anche perché io ho una militanza variegata, sono stato iscritto anche al Psiup. Ma mio padre era uno di altri tempi. Per dire, lui fu quello che anni dopo, nel 1994, organizzò un corteo per impedire a Gianfranco Fini, all’epoca vicepremier nel governo Berlusconi, di inaugurare la fiera del Tartufo ad Alba. Mio padre era un rivoluzionario vero, uno di quelli che allargava le braccia e se ne usciva con frasi tipo: “In fondo Curcio non ha ucciso nessuno”».
Furono dunque vacanze di lotta?
«Diciamo che approfittai di quell’estate per guardarmi intorno, cercare modelli. Prendevo esempio da quelli più grandi di me, come Degiacomi o Vittorio “Toio” Manganelli, primo direttore dell’Università di Scienze Gastronomiche e autore dell’Atlante del Vino Italiano. Persone coltissime e impegnate».
Altri ricordi della sua militanza?
«Anche se eravamo adolescenti, non ci siamo mai sottratti al dovere della solidarietà. Siamo pure scesi in piazza con gli operai, come si usava allora. Io ho preso parte a diverse manifestazioni al fianco dei lavoratori: ho protestato, per esempio, con gli operai della Miroglio e della Ferrero».
Diciamo che, in seguito, lei diventerà uno più simile a Ferrero che ai suoi lavoratori...
«Sì, ma il Sessantotto per me è stato importante anche perché mi sono calato nella realtà vera del lavoro. Ho visto come funziona la macchina dall’interno, come si muovono i suoi ingranaggi. Certo, capivo poco. Era come se stessi assorbendo una lezione più grande di me, un insegnamento che avrei assimilato solo con il tempo e con l’esperienza».
Sia più preciso.
«Ero un ingenuo perché vedevo personaggi come Lenin o Mao Tse Tung come icone del bene, figure nobili che si sacrificavano per il bene dell’umanità. Ero molto giovane e prendevo alla lettera i discorsi che si facevano durante le assemblee o nelle riunioni politiche. Mi mancava un preciso senso del discernimento. Questo è arrivato più tardi, quando mi sono messo a lavorare e sono diventato io stesso un imprenditore. Ma la vera eredità del Sessantotto è stata l’avermi insegnato ad avere coraggio».