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 2018  luglio 04 Mercoledì calendario

Michele Riondino: «A Venezia facevo le file, adesso come padrino combatto gli abusi»

«Ho vissuto la Mostra di Venezia da spettatore e allievo di teatro, squattrinato, centellinando i film da vedere, la fila per la sala per me era una cerimonia». Michele Riondino, 38enne attore cresciuto a teatro e nel cinema d’autore, sarà il padrino dell’edizione che s’apre il 29 agosto. Il rito della fila è proseguito anche dopo la popolarità del suo Giovane Montalbano. «Una volta alla Mostra mi hanno fermato perché avevo preso il pass di un mio amico. Mentre ero lì, tra la gente della security, la gente si fermava per farsi le foto con me, imbarazzante. Ma non ci sono attori che tengano…».
Sono stati imparziali. Bene, no?
«Qui entra in gioco il Montalbano che è in me: bene, ma non esageriamo ragazzi…».
E quanto c’è ancora di Montalbano in lei?
«È rimasta l’ombra di un personaggio che ho amato e l’incredibile incontro pirandelliano con l’autore che lo ha creato. Il regalo più bello nella mia vita professionale è stato il confronto con Andrea Camilleri».
Sarà ancora il giovane Montalbano?
«Al momento non è previsto. Girano quello tradizionale. Bisognerà poi aspettare una storia di Camilleri. Ma anche La mossa del cavallo è stata una bella esperienza, i romanzi storici di Andrea vanno raccontati al cinema».
Il suo discorso sul palco a Venezia sarà politico?
«Non voglio politicizzare la Mostra più del dovuto. Ma penso anche che l’arte sia un modo efficace di tradurre la realtà e in questo c’è della politica. Mi sto guardando intorno, perché l’idea dell’Italia che stiamo dando in questi giorni è la più tetra dagli anni del fascismo. Penso che il consenso che raccoglie questa sorta di presidente del Consiglio ombra che è in realtà il ministro dell’Interno non è merito suo ma demerito di una sinistra che non può incolpare gli elettori di averla tradita perché è lei ad aver tradito sé stessa. Sono uno di quelli che non si è sentito rappresentato in questi anni e ha deciso di cambiare. Ho appoggiato il Movimento 5 Stelle perché ritenevo, ritengo, che potesse essere un muscolo che se allenato bene avrebbe potuto contrastare la pancia del leghismo più sfrenato. Sono deluso perché vedo invece un muscolo flaccido, che non reagisce. Ma preferisco comunque il M5S al governo e non Berlusconi, che sarebbe stata l’alternativa. Come al solito si punta al meno peggio».
Da cinque anni è il promotore del “contro concerto” a Taranto del Primo maggio.
«Il concerto porta gioia e dolori. La gioia di aver ridato valore a una festa che aveva perso contenuto, a favore delle sigle sindacali che a San Giovanni, in modo cieco e sordo, pensano di suonare e cantare per il diritto al lavoro. La gioia è che aumenta di anno in anno la presenza di artisti e pubblico. Ancora, il dolore è vedere una città che non ha la forza e il coraggio di riconoscere il proprio dramma, di rivendicare ciò che ci è dovuto».
Com’è cambiato negli anni il rapporto con la sua città?
«Come ogni diciassettenne ribelle sono fuggito da Taranto perché odiavo una città che sapeva offrirmi solo due strade: la fabbrica o la Marina. A dodici anni immaginavo come avrebbe potuto essere la mia vita se fossi nato a Roma, Milano, Torino. Mio padre era operaio all’Ilva. Sono cresciuto con il disagio di chi vive in una città del Sud abbandonata a sé stessa e a un disegno industriale opprimente. Ho frequentato l’istituto tecnico, a scuola mi hanno insegnato come si fa l’acciaio perché il mio destino era finire nell’acciaieria. Avevo dentro una rabbia che si è trasformata nell’attivismo tipico di tanti miei coetanei. Nel 2012 ho iniziato a vedere i tarantini che si ribellavano alle cose per cui io avevo manifestato a quindici anni. La questione Ilva è scoppiata, ho pensato di approfittare della popolarità del giovane Montalbano per diventare un ambasciatore dei problemi della mia città».
Nella sua prima dichiarazione da “padrino” di Venezia ha sottolineato la necessità della parità di genere nel cinema.
«Prendo le parti di Asia Argento in tutto e per tutto. Ha avuto grande coraggio, mettendo in moto il meccanismo necessario per far emergere un tema. Ma il mondo del cinema ha usato male il caso Weinstein e quel che è successo dopo. Perché ha proiettato su sé stesso il dramma dell’abuso di potere. Quando in realtà noi attori e registi avremmo dovuto sfruttare questa storia per raccontare quello che accade anche nel resto della società. Detesto le quote rosa, ma ho una figlia e non voglio che sia normale per lei, quando crescerà, trovarsi una mano nelle mutande. Perché quando ero un ragazzino — ora faccio anche io il MeToo — ai tempi dell’Accademia d’arte drammatica sono stato invitato a casa di un regista e mi sono visto sbattere al muro. Non è così che deve funzionare. Nel mio mondo era considerato una cosa normale. Se affrontiamo il tema in maniera obiettiva, cercando di restituire alla normalità il suo significato reale, dovremmo dire che è altrettanto normale che chi compie un abuso di potere venga perseguito e condannato».
Chi l’accompagnerà alla Mostra?
«La mia compagna, nostra figlia. Pensiamo di portare le nonne. Mia madre non aspetta altro».