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 2018  luglio 01 Domenica calendario

«A 8 anni facevo il baby sitter di mio fratello Giuliano. Che paura il cane di Togliatti». Intervista a Giorgio Ferrara

Il padre Maurizio era direttore dell’Unità e molto altro, il fratello Giuliano direttore del Foglio, poi editorialista e molto altro, la madre Marcella era responsabile della segreteria di Togliatti e molto altro. Una famiglia ingombrante. «E di giornalisti ce n’erano troppi, non potevo farlo anch’io», sospira Giorgio Ferrara, comodamente seduto da Babingtons, la celebre sala da tè a piazza di Spagna, per lui una specie di dépendance della sua casa a via delle Carrozze. «Volevo fare una cosa diversa, l’attore».
Perciò si rivolse all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico. Che testo portò al provino?
«L’uomo dal fiore in bocca: facile, facile, no? Tuttavia andò bene e mi presero».
Voleva fare l’attore, poi però ha sempre fatto il regista. Come mai?
«In realtà in Accademia restai solo un anno: erano i tempi caldi del ’68, partecipai alle contestazioni e, insieme ad altri allievi, occupammo l’Accademia, io ero tra i più agguerriti contestatori. Eredità di famiglia...».
Certo, essendo figlio di un senatore comunista e di una partigiana...
«Ma fu Luca Ronconi, che all’epoca insegnava recitazione all’Accademia, a farmela lasciare. Lui stava per allestire Misura per misura e un giorno mi dice “vieni fuori da qui, impari di più a lavorare con me”. Cominciò con il darmi delle piccole parti da attore, però mi impiegava soprattutto come aiuto regista e la mia vocazione attoriale, con il tempo, si estinse. Tuttavia, saper fare l’attore aiuta molto nella regia e infatti lo stesso Luca aveva studiato recitazione».
Grazie a Ronconi ha conosciuto la donna della sua vita, Adriana Asti.
«Sì, devo a lui anche questo incontro. A quel tempo lo seguivo, come assistente, per l’Orlando furioso e la trasferta a New York dello spettacolo fu galeotta. In aereo eravamo seduti vicini, Adriana era molto attraente e poi ironica, spiritosa... mi piaceva».
E la guardava...
«Veramente era lei che guardava me, facendo finta di allungare lo sguardo al finestrino per ammirare la città dall’alto mentre atterravamo. Una sera, in hotel, bussai coraggiosamente alla sua porta, che mi fu aperta».
Ma lei era sposato!
«Per modo di dire. Un matrimonio che è durato, in pratica, il tempo del viaggio di nozze. Io avevo 23 anni, cinque meno di mia moglie, una ragazza che apparteneva all’alta borghesia romana ed era di origini libanesi. Dopo la cerimonia a Roma, partimmo per Beirut dove suo zio era proprietario di un grande casinò: esperienza straordinaria. Tutte le sere eravamo lì, perché al di là dei tavoli da gioco, c’erano spettacoli di tutti i generi con star internazionali. Quando tornammo dall’ubriacatura di feste ed eventi, restammo insieme solo qualche altro mese».
E si è nuovamente innamorato di una donna più grande: da che dipende la predilezione per donne più mature?
«Ma Adriana non l’ho mai considerata più matura di me, semmai è il contrario, il “maturo” della situazione sono io, lei un’eterna “figlia”! Piuttosto era lei a essere dubbiosa sul futuro del nostro rapporto, mi ripeteva: “Sei sicuro? Io ho più anni di te”. E siccome non le bastavano le mie rassicurazioni, andò da mia madre a esternare i suoi dubbi, ma le fu risposto: “Sposalo”».

Una madre evidentemente sicura della serietà del proprio figlio.
«Penso proprio di sì, d’altro canto io a 8 anni avevo le chiavi di casa e badavo a mio fratello Giuliano che di anni ne aveva 3. Sapevo cucinare, portavo il fratellino all’asilo... una grande responsabilità che mi ha insegnato a essere indipendente. Un’indipendenza che mi è servita quando, qualche anno dopo, andammo a vivere a Mosca: mio padre era corrispondente dell’Unità e mia madre era impegnatissima con Togliatti».
Essere indipendenti da bambini nella Mosca di Krusciov non sarà stato facile.
«Giuliano e io eravamo stati immersi in quella realtà in modo brutale. Abitavamo davanti alla Pravda. Mio padre poteva contare su uno stipendiuccio da giornalista comunista, non ci mancava niente, la casa era piccola, ma dignitosa. Ricordo il rumore della telescrivente accesa giorno e notte dentro il suo studio».
E la scuola?
«Venni buttato dentro a una classe di ragazzini russi, che per la prima volta vedevano uno straniero: eravamo vestiti tutti in divisa, sembravamo piccoli militari e questo mi piaceva molto».
Come se la cavava con la lingua?
«Sono rimasto muto per alcuni mesi, ascoltavo e basta pur non capendo nulla, poi ho iniziato a parlare russo. Però, per continuare a procedere negli studi, avevo un’insegnante molto speciale, Vittoria Ronchey, moglie di Alberto, che mi dava lezioni a casa per poi sostenere gli esami da privatista in Italia».
Una famiglia ingombrante, con frequentazioni importanti.
«Da noi circolavano Amendola, Pajetta, Napolitano... era eccitante ascoltarli. E poi Togliatti: quando ero piccolissimo venivo spesso parcheggiato a casa sua, a Roma, per me era uno zio buono. Ma aveva un cane da guardia ferocissimo, un mastino napoletano enorme».
Ne aveva paura?
«No, perché bastava che Togliatti agitasse un fazzoletto bianco, che portava sempre nel taschino della giacca, e la bestia si placava, docile come una pecora. Poi mi raccontava delle belle storie e ascoltavamo musica dalla grande radio che gli avevano regalato e di cui andava fiero: proveniva dalla Germania dell’Est».

E Nilde Iotti?
«Apparentemente dura, forte, invece era dolcissima. Il rapporto tra lei e Palmiro, somigliava parecchio a quello tra i miei genitori».
Genitori, in verità, un po’ assenti.
«Assenti per i loro impegnativi lavori, ma presenti: mi lasciavano libero nelle mie scelte, pur dandomi consigli quando necessari, con qualche critica».
Per esempio?
«Mio padre, quando ero adolescente, mi criticava per il mio abbigliamento: pantaloni gialli, camicie verdi... Diceva ti vesti come un cono gelato... Un vezzo che un po’ mi è rimasto tuttora».
Mai un rimprovero, uno schiaffo?
«Rammento un episodio terribile. Papà aveva una biblioteca piena di libri e una volta, da ragazzino, mi arrampicai sugli scaffali cercando un volume. Faccio crollare l’intera biblioteca, un mare di carta per terra, disastro. Quando tornò a casa e vide quel casino, mi ha riempito di botte: non so se per il pericolo corso o per il disordine causato. Un’altra volta scappai di casa con il mio amico Renzo Foa».
Atto di ribellione alla famiglia o una goliardata?
«Entrambe le cose, ma durò poco. Renzo mi venne a prendere con la sua vespa, girammo per ore senza meta. A un certo punto sentiamo alle spalle un clacson che suonava insistente, io senza voltarmi gli faccio le corna, poi mi accorgo che era mio padre in macchina a inseguirci. Mi scaraventa giù dalla vespa e giù botte».
Come regista qual è lo spettacolo di cui va fiero e quello che avrebbe potuto risparmiarsi?
«Tosca e altre due di Franca Valeri, protagonista con Adriana, è il migliore. Il peggiore? Tre uomini per Amalia, commedia scritta da Cesare Musatti per Adriana: non era un capolavoro, sarebbe stato meglio non metterlo in scena. Per fortuna il grande psicoanalista non fece in tempo a vederlo, era già morto quando debuttammo».
E nel dirigere altre attrici, ha mai vissuto situazioni imbarazzanti?
«Allude al Me Too? Assolutamente no. Sono sempre stato rigido e lontano da certi imbarazzi. È giustissimo il riscatto di dignità delle donne e certi mascalzoni andrebbero evirati, però conosco bene il mondo dello spettacolo...».
E allora?
«Weinstein sarà un mostro, ma dietro la sua porta c’era la fila e non capisco la retroattività: perché non denunciare subito e aspettare vent’anni? Piuttosto penso con rammarico a certe operaie in fabbrica molestate dal padrone, costrette a subire per non perdere il lavoro».
L’anno scorso ha compiuto dieci anni da direttore del Festival di Spoleto. Adesso inizia una nuova avventura per altri tre anni.
«Non me l’aspettavo. Quando ho iniziato trovai un festival in decadenza. Il grande Menotti era scomparso e gli artisti importanti non volevano tornare in una manifestazione che consideravano morta. Gli amici mi davano del matto ad accettare l’incarico, ma io mi rivolsi a due fari: Ronconi e Bob Wilson. Loro mi risposero di sì e, quando si seppe in giro, tutti gli altri vennero a proporsi. Il problema sa qual è stato?».
Quale?
«Ho avuto difficoltà a lavorare con la cittadinanza locale: eravamo considerati dei conquistatori. Per fortuna la gran parte degli spoletini ora ci appoggia convinta».
Per l’inaugurazione del nuovo triennio, firma la regia di un’opera contemporanea, «Minotauro» di Silvia Colasanti.
«E altre opere contemporanee proporrò in seguito: i prossimi tre anni saranno all’insegna di nuovi talenti».