Il Messaggero, 23 giugno 2018
Ustica, il mistero resta tra ipotesi e depistaggi
Alle ore 20,08 del 27 giugno 1980 il DC9 dell’Itavia IH870 decollò dall’aeroporto di Bologna diretto a Palermo, con a bordo 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio. Il tempo e la visibilità erano perfetti. Il volo proseguì normalmente, e fu tracciato dai vari radar competenti. Improvvisamente, alle 20,59, mentre si trovava sul cielo di Ustica, l’aereo sparì dagli schermi. Le ricerche iniziarono subito, senza troppe speranze di trovare superstiti. Il giorno dopo affiorarono alcuni corpi, bagagli e piccoli pezzi del relitto. Si capì subito che il DC9 si era inabissato.
La prima ipotesi fu di un cedimento strutturale: la compagnia, si disse, non brillava per diligenza nella manutenzione. In realtà non ci credette nessuno. Quel velivolo non era affatto vecchio, e non poteva sfasciarsi così, senza ragione. Quindi si pensò ad altro: e come era accaduto per altre catastrofi, la dietrologia cominciò a fiorire.
Erano in effetti anni difficili. In Italia imperversava il terrorismo. Il Mediterraneo era un viavai di Fedayn finanziati e protetti da Gheddafi, da Arafat e dai sovietici, spesso peraltro in conflitto tra loro. L’Urss aveva piazzato i suoi missili nucleari SS20 a poca distanza da noi, e gli Usa stavano rispondendo collocando i Pershing e i Cruise. I pacifisti protestavano, naturalmente sempre e solo contro gli americani.
BOLOGNA
Il Papa polacco stava minando il monolite d’oltrecortina, e il patto di Varsavia preparava l’ennesima repressione. Il nostro Paese, già martoriato dagli attentati dei rossi e dei neri avrebbe subìto, di lì a poco, la strage della stazione di Bologna. Ce n’era dunque abbastanza per attribuire il disastro del DC9 a un atto di guerra di qualcuno. Ma chi?
Qui scattò il riflesso del putant quod cupiunt, oggi tradotto nel più accessibile termine di wishing thinking: sposare cioè la tesi che più si adatta ai propri pregiudizi e alle proprie convenienze. E così le ipotesi si scatenarono. Accantonato il cedimento strutturale, si pensò a una bomba: un tesi tecnicamente più verosimile vista la subitaneità dell’evento e l’improvvisa interruzione di ogni comunicazione. E naturalmente si disse che la bomba era fascista. Dopo la strage di piazza Fontana del 1969 ogni bomba era ontologicamente fascista, come i servizi segreti erano deviati, e le loro malefatte destinate a sfociare in clamorosi sviluppi malgrado il massimo riserbo: i nostri giornalisti non brillavano di fantasia lessicale. Ma evidentemente non bastava: i terroristi neri, alcuni dei quali già individuati, processati e condannati, erano in fondo gruppetti isolati. Forse bisognava cercare più in alto: la Cia, il Sismi, e naturalmente il Mossad.
Allora emerse l’ipotesi del missile. Ma un missile non si spara così, come una fiondata: occorreva individuarne il tipo, il costruttore, il possessore e naturalmente il tiratore scelto. Qui le supposizioni si incrociarono: era un missile americano, lanciato dal un aereo della portaerei Saratoga, oppure francese, della portaerei Foch, ( o Clemenceau); no, era di un nostro F104; anzi, un razzo libico, spedito per contrastare un attacco a Gheddafi che si trovava da quelle parti. In effetti, in Luglio un Mig libico era precipitato sulla Sila: se le date non coincidevano, bastava retrodatarne la caduta.
IL RADAR
Queste ipotesi generarono delle sottospecie: un aereo si era affiancato al DC9, sfruttandone la scia e sfuggendo ai radar; gli israeliani avevano bombardato un traffico di uranio; per alcuni, il DC9 si era trovato addirittura nel mezzo di una gigantesca battaglia aerea. In totale 29 versioni, una diversa dall’altra: per parafrasare Gibbon, tutte vere per il popolino, tutte opinabili per il tecnico e tutte utili per i giornalisti.
Il libro di Eugenio Baresi Ustica, Storia e controstoria(con la prefazione di Giuliana Cavazza, che nella strage ha perso la madre) le riassume tutte, come prodromo alla complessa vicenda giudiziaria che ne è seguita. Quella che, durante quasi quarant’anni, ha cercato di ricostruire la dinamica e le responsablità del disastro. Ne esce un panorama scoraggiante sui tempi, l’efficienza e le contraddizioni della nostra sgangherata giustizia. Ma ancora più scoraggiante è assistere all’ostinazione di chi, per difendere teorie preconcette, si è affidato e si affida ancora alle fonti più diverse. Purtroppo, come accade in questi casi, la credulità ha generato dei mostri, e ha mietuto altre vittime.
I VERTICI
I processi penali hanno infatti coinvolto essenzialmente l’Aeronautica Militare, i cui vertici sono stati accusati di aver travisato, falsificato e soppresso prove per avallare la teoria della bomba a scapito di quella del missile. L’intera costruzione era paradossale. Decine di generali, colonnelli e sottufficiali sarebbero stati indotti al silenzio per proteggere non si capisce chi: gli americani, i francesi, i libici o gli israeliani.
Tuttavia le indagini iniziarono, anche perché alcuni tracciati radar presentavano delle anomalie, e proseguirono per vari anni attraverso consulenze, perizie, testimonianze, rogatorie e affidavit. I presidenti Clinton e Chirac furono sollecitati a collaborare: loro risposero che avevano fornito tutto il materiale possibile, e avrebbero continuato a farlo. Ma poiché da quel materiale non emergeva nulla, si cominciò a sospettare anche di loro.
Alla fine, dopo un milione e 750 mila pagine di istruttoria, 4000 testimoni e 277 udienze, con un costo di vari miliardi, tutti gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Quanto alle cause della catastrofe, i Giudici penali non si pronunciano con certezza. Ma la perizia in atti, firmata da undici luminari italiani, tedeschi, inglesi e svedesi aveva concluso rigettando le ipotesi di abbattimento mediante missile, di collisione e di danno strutturale, considerando invece quella della bomba come tecnicamente sostenibile.
I RISARCIMENTI
Qui dovremmo fermarci, esausti, se non fosse che la sentenza penale è stata ignorata dal giudice civile, che ha condannato lo Stato a vari risarcimenti sulla base della probabilità dell’ipotesi missilistica. Il paziente lettore si domanderà perplesso come mai due Corti dicano cose diverse e opposte. Da noi capita anche questo. A distanza di quasi quarant’anni da quella tragedia (dove è morto anche un magistrato veneziano, nostro amico) possiamo solo constatare, con amara rassegnazione, che assieme al Dc9 è naufragata anche la certezza del diritto.