Corriere della Sera, 23 giugno 2018
Un Iran meno prevedibile dopo la scelta di Trump
Negli ultimi tempi, la situazione dell’Iran sembrava in via di miglioramento. L’accordo sul nucleare, firmato nel 2015 dal governo iraniano con Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania, aveva cancellato le sanzioni più restrittive inflitte al Paese, facendo incrementare notevolmente la produzione di greggio dell’Iran. Miliardi di dollari, sotto forma di asset congelati da diversi anni, erano di nuovo disponibili. Le aziende europee si precipitavano in Iran a caccia di affari. L’economia del Paese andava lentamente risollevandosi e la promessa di giorni migliori aveva riacceso le speranze della popolazione.
Anche l’assetto geopolitico dell’Iran appariva promettente. Barack Obama non mostrava preferenze per l’Arabia Saudita, il principale rivale dell’Iran nella regione del Golfo, come avevano fatto i suoi predecessori alla Casa Bianca, specie dopo la rivoluzione degli ayatollah del 1979, né si schierava particolarmente a favore di Israele. Dopo anni di guerra civile, la Siria di Bashar al-Assad, principale alleato dell’Iran nella regione, confermava fino a che punto il regime era in grado di resistere. La guerra dei sauditi contro gli alleati Houthi dell’Iran, nello Yemen, non aveva fatto segnare grandi progressi. L’ago della bilancia del potere in Medio Oriente sembrava spostarsi decisamente a favore dell’Iran.
Ed ecco che entra in scena Donald Trump. Per prima cosa, il presidente americano ha deciso di distinguersi dal precedessore con una mossa incauta e repentina a favore dell’Arabia Saudita e del suo giovane e ambizioso erede al trono, il principe Mohammad bin Salman. I suoi commenti sull’Iran hanno cominciato a ricalcare sempre di più le dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Subito dopo, ovviamente, Trump ha dato seguito alle minacce di ritirarsi dall’accordo con l’Iran sul nucleare. Il Paese era stato già scosso da manifestazioni rabbiose contro l’elevato tasso di inflazione, la crescente disoccupazione, i tagli alla spesa pubblica e la corruzione dilagante, mentre l’economia stentava a ritrovare slancio, malgrado le promesse del governo.
I leader dei Paesi europei, indignati dal ritiro americano, hanno promesso di tener fede all’accordo anche senza la partecipazione di Washington, ma le ultime voci suggeriscono che le aziende europee si ritireranno dall’Iran per evitare qualunque rischio di vedersi negare l’accesso ai mercati americani, di gran lunga più appetibili. Le sanzioni non torneranno in vigore per diversi mesi, e ciò consentirà all’Iran di adeguarsi alle richieste americane, che reclamano emendamenti all’accordo sul nucleare e un atteggiamento meno ostile verso Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele. Tuttavia, è molto improbabile che l’Iran voglia scendere a compromessi, poiché gli avversari dell’accordo esercitano una forte influenza proprio in quei settori sensibili all’interno del Paese.
La posizione dell’Iran nella regione sembra indebolirsi progressivamente. Israele ha lanciato pesanti attacchi aerei contro le installazioni militari iraniane in territorio siriano e ha dichiarato apertamente che è pronto a rifarlo. La Russia, impaziente di imporre la sua presenza politica ed economica in Siria, non può che trarre vantaggio dall’inasprirsi delle pressioni sui rivali iraniani.
In Iran, le preoccupazioni si moltiplicano. Il presidente Hassan Rouhani ha messo in gioco la sua credibilità con l’accordo sul nucleare, puntando sulla spinta che questo avrebbe impartito all’economia stagnante del Paese. Il ramo più intransigente del governo invece fa di tutto per evitare un’apertura economica che potrebbe allentare la sua presa su gran parte della ricchezza iraniana, e vede con soddisfazione tutto quello che mira a screditare l’accordo, e di conseguenza lo stesso Rouhani.
Le esportazioni iraniane di greggio avevano toccato il record di 2,6 milioni di barili al giorno nel mese di aprile, prima di perdere 100.000 barili al giorno a maggio. La Total francese, la russa Lukoil e altre multinazionali del petrolio sembrano sul punto di rinunciare ai loro piani di sviluppo in Iran.
Stavolta, tuttavia, l’economia iraniana potrebbe non essere colpita così duramente dal ritorno delle sanzioni come accadde tra il 2010 e il 2015, se la Cina e le aziende cinesi saranno disposte a ignorarle. È anche vero che le diffuse manifestazioni di protesta in Iran lo scorso dicembre non erano rivolte contro la leadership religiosa del Paese. Ma le contestazioni di piazza sono sempre alimentate da timore e rabbia, non già dalle statistiche, e la protesta che cavalca una particolare lagnanza può mutare improvvisamente, a seconda dell’evolvere degli eventi, degli umori, e della reazione del governo.
Queste profonde frustrazioni potrebbero rendere l’Iran un attore più aggressivo e meno prevedibile nella regione. L’Iran è già coinvolto nella lotta politica in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Le minacce di attacchi con missili, droni e mezzi informatici contro bersagli sauditi, in particolare le risorse energetiche, si fanno più incalzanti. Le forze armate iraniane e statunitensi si guarderanno con crescente sospetto, specie nello stretto di Hormuz. Ma l’arena sulla quale convergeranno sia le forze siriane che Russia, Iran, Usa, Turchia, Israele, Arabia Saudita, curdi e jihadisti, sarà la Siria, dove ci si attende il massimo pericolo di conflitto armato, e l’incognita iraniana non farà che aggravare quel rischio.
(Traduzione di Rita
Baldassarre)