Corriere della Sera, 23 giugno 2018
Sandro Veronesi: «Quella diagnosi di tumore come il protagonista del libro che sto ancora scrivendo»
E dopo un po’ che parliamo dei suoi trent’anni da scrittore, di Caos Calmo e di Terre Rare, e di che significa essere padre di molti libri e di cinque figli tra i 27 e i 5 anni, o di come sia stato difficile perdere i genitori uno dopo l’altro di cancro, stare loro accanto potendo solo accompagnarli alla fine, e di come dopo abbia scritto il suo libro più cupo, quell’XY del 2010, «dove tutti erano morti e non c’era un raggio di sole», viene il momento in cui Sandro Veronesi racconta che, due anni fa, ha avuto un cancro e l’ha avuto mentre scriveva un romanzo il cui protagonista moriva di cancro. Bisogna allora che l’intervista parta da qui, perché, intorno a certi momenti si può girare nella letteratura, ma più difficilmente nella vita. Gli avevo chiesto se aveva fatto pace con la morte e lui mi ha risposto: «Due anni fa, ho avuto un tumore. Quando mi hanno comunicato la diagnosi, ho pensato di essere troppo giovane per morire. Che avevo i figli troppo piccoli per morire. E che, quindi, non sarei morto».
Il rischio c’era?
«Mi hanno dato ampi margini di cura. Ho fatto una radioterapia molto intensa, sono guarito. Poi, faccio sempre i controlli. Ho retto bene. Solo se ero girato per altri motivi mi veniva da fare la vittima e non mi piaceva. Allora, pensavo alla scena di Amarcord in cui lui si vuole ammazzare perché è esasperato, ma non vuole davvero morire. Fa ridere. I miei pensieri sulla morte erano rabbiosi come nel film».
Quando si è ammalato, stava scrivendo?
«Avevo iniziato un romanzo che non volevo più finire perché il protagonista moriva di cancro. Mi era già successo di predire qualcosa che si sarebbe avverato. Non credo nelle ispirazioni ma nelle cose che sono nell’aria».
Nella «Forza del Passato», nel padre che si rivela spia del Kgb, col senno di poi, qualcuno lesse la storia del caso Mitrokhin.
«Il libro era quello, ma ciò che aveva predetto era la fine del mio primo matrimonio. Il protagonista, nell’intento di scoprire l’identità del padre, scopre cose della moglie. Quando mi sono ammalato, sapevo che niente arriva per caso. Anche il modo in cui scoprii il tumore fu sintomatico. Non stavo male, ma, per la prima volta, soffrivo di un’ansia pazzesca. Ho avuto il mio primo e unico, violentissimo, attacco di panico in via del Corso a Roma, coi bimbi. Prima li ho visti persi, poi morti. Dopo, mi sono fatto visitare organo per organo e il tumore ha avuto una diagnosi precocissima».
Che ha fatto col libro?
«L’ho sospeso e ora l’ho ripreso e conto di finirlo entro l’anno. Il protagonista è un oftalmologo: mi serviva un lavoro che non destasse curiosità. Da ragazzo, quando scrivevo ma non ero stato pubblicato, mi spacciavo per tale, per non rispondere a troppe domande».
(Eravamo partiti da qui. Da lui che raccontava i suoi esordi, quando neanche immaginava che avrebbe vinto un Campiello e uno Strega e sarebbe stato tradotto in tutto il mondo e dai suoi libri avrebbero tratto film di successo. La prima domanda era quella qui sotto).
Nel 1988, usciva «Per dove parte questo treno allegro», come fu quella prima volta?
«Ricordo il giorno in cui ricevetti la notizia che me l’avrebbero pubblicato come il più felice della mia vita, con buona pace di mogli e figli. Ero dai miei a Prato. Non dissi niente, uscii sul mio Maggiolino, feci quattro volte Prato–Barberino, da casello a casello, lo stereo incantato su Wild Real Child, nella versione di Iggy Pop, io che cantavo dalla gioia. E quando tornai a casa, dissi, con aplomb: madre, padre, vostro figlio è uno scrittore».
In un questionario di Proust, ha risposto che erano loro il suo eroe e la sua eroina.
«Ci tenevo a fargli sapere che erano stati grandi a comprendere il mio bisogno di correre il rischio di scrivere. Un rischio che corro ancora: non ho pensione, non ho cassa malattia. Con me e con mio fratello Giovanni, partito due anni prima per fare il regista, hanno fatto un atto di fede. Senza il loro atto di fede, avrei creduto che non era roba per me. Invece, potei laurearmi in Architettura, preparandomi, dentro di me, a forme di sopravvivenza estrema, perché sapevo che avrei scritto».
E com’è stata la sopravvivenza estrema?
«Andai a Roma. Avevo amici scrittori giovani, Edoardo Albinati, Marco Lodoli. Stavo due giorni, dormivo su un divano. Finché Vincenzo Cerami, che scriveva un film con mio fratello e Francesco Nuti, mi offrì uno studio, appartenuto a Pier Paolo Pasolini».
La intimidiva lo studio di Pasolini?
«Al contrario. Scrivevo sulla sua Olivetti 22, sentivo il suo spirito che mi aiutava. Mi trovai una stanza ammobiliata dopo nove mesi: non volevo abusare di quella grazia di Dio».
Come si manteneva?
«Con lavori infimamente pagati, tipo traduzioni. Per due mesi, trasportai pianoforti con un amico che era un colosso, sicché mi dissi che parevamo Stanlio e Ollio e smisi. E, a volte, mi imbucavo a cena con Giovanni, Nuti, Massimo Troisi, e finalmente mangiavo bene e mi distraevo dalle ristrettezze».
Il 29 giugno sarà alla Milanesiana su «arte del romanzo, dubbi e certezze». Quali i suoi dubbi e quali le certezze?
«Non farò altro che elencare dubbi. Ne leggerò sei pagine. Ogni volta che ti approcci alla scrittura, devi risolvere quei dubbi. Non conta che sono passati trent’anni. Di diverso c’è solo che ho altri dubbi che prima non sospettavo».
Una certezza ce l’ha?
«Non scriverò un romanzo epistolare. Troppo facile. Se succede, finitemi a bastonate».
La rettitudine, ovvero l’impossibilità di una vita esemplare, è il suo tema di elezione.
«Ci si possono scrivere centinaia di libri».
Lei aspira a essere retto?
«Essere retto non è sufficiente. In sé, è un’aspirazione facile, ma a me piacerebbe che sulla mia tomba scrivessero “era un uomo buono”. Sulla bontà, vacillo perché ti senti buono, ma forse non lo sei».
Una volta, ha detto: «Mentre vivo, concepisco la mia rovina».
«Quando un padre dimentica il figliolo nell’auto, lo sento come se fosse successo a me. Non c’è una cosa ripugnante che non mi sia vicinissima. Il male banale di Hannah Arendt ce l’ho qui, lo tocco, lo sento. E tutte le volte che qualcuno è disgraziatissimo, è un fratello, posso essere io. Penso che non sarò mai salvo da quel genere di cose in cui hai responsabilità disastrose, hai rovinato tutto».
Le è successo?
«Non da finire sul giornale, per fortuna».
Però, dopo il divorzio, è stato così bravo da crescere tre figli da solo.
«Nessuno, neanche mia madre, credeva che ce l’avrei fatta. Era la mia prima nidiata: tre dai 12 ai 4 anni. Io non avevo perplessità, se non che la madre doveva esserci, ma le complicazioni geografiche tagliavano fuori uno dei due. E non ho mai temuto i pericoli, la droga. Ho sempre detto: a noi non avverrà».
È riuscito a essere sia retto sia buono?
«Sono stato non normativo. Lascio fare e i figlioli non hanno preso strade sbagliate. Quando hanno idee o gusti diversi da me, la prendo come un’occasione per imparare».
Nessuno ha cinque–figli–cinque.
«Mi piace averli. È anche uno sprone per risolversi. Se sei padre, ti devi progressivamente ritirare dalla posizione di dominio, non ambire a troppo, perché togli l’ambizione al figlio».
I due maggiori sono all’estero. Le spiace?
«Da un lato. Ma il più grande fa il dottorato in Archeologia a Londra, è già parte di una comunità, mentre qui porterebbe le borse ai baroni, e l’altro studia recitazione, non gli auguro di tornare. È penoso che questo Paese non ti faccia percorrere la tua strada».
Il terzogenito sta facendo la maturità, lei che tema avrebbe dato?
«Avrei chiesto: quando qualcosa si spacca in due, che fare?».
Svolgimento?
«Lo ripari. Lo lasci diviso in due. Allora, perché non in quattro? Cos’è l’intero? E l’integrità, la molteplicità? Oggi, le cose si rompono e si buttano. Se si rompe un legame, ci si separa. Ma se si rompe il Paese? Fai due Paesi? E poi quattro? E quando si arriva all’atomo?».
Che Italia è quella di Luigi Di Maio e Matteo Salvini?
«Non è Italia, è un circoletto che non impatta. Bisogna studiare per sapere cos’è l’Italia».
Nel 2010, disse «questo Pd morirà prima di nascere». Ha avuto ragione?
«Sì. Mi ero entusiasmato quando Walter Veltroni l’aveva fondato. In quel 2007, partecipai a una lista a Prato di soli extracomunitari e me. Walter fu eletto segretario, mi aspettavo che tutto sarebbe cambiato, ma non andò così perché non aveva un suo esercito. Aveva la forza delle idee, ma non di che occupare il partito. Massimo D’Alema e Matteo Renzi sì. Dopo di lui, tutto è successo per motivi vili».
L’anno prossimo compirà 60 anni. La cosa più importante che ha capito?
«Che non è disonorevole mollare».
Quando l’ha capito?
«Con Caos Calmo: mi ero separato e i primi due anni i bambini sono stati con la mamma, è stato difficile scrivere un libro così profondo sulla paternità, stando lontano dai figli. La sera, mi facevo invitare da amici con bambini perché i piccoli venissero a farsi arruffare i capelli. Lì ho capito che le cose importanti non accadono sotto il nostro controllo».
Ha avuto un merlo parlante, che le diceva?
«Diceva: Sandro. Cantava “portami tante rose”. Era melodioso e questo lo faceva finire in gabbia. Un mio amico, il sassofonista John Lurie, continuava a chiedermi “perché parla?”. Non sono mai riuscito a rispondere».
E lei perché scrive?
«Forse, perché come il merlo indiano le cose le ho sentite e mi va di dirle anche io».