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 2018  giugno 21 Giovedì calendario

Zhu, il pianoforte zen: «Con Bach sono fuggita dalla rivoluzione di Mao»

Getta lo sguardo sulla Senna, oggi placida e rassicurante. Che scorre lì sotto il davanzale del suo appartamento, a Parigi. «Bach era buddista, ne sono sicura». Lo dice e sorride Zhu Xiao-Mei, pianista cinese, famosa in tutto il mondo per le sue interpretazioni del compositore tedesco. «Perché la bellezza della musica di Bach proviene dalla sua serenità. Non vuole mai drammatizzare: né il dolore, né la felicità. È sempre misurata, come lo spirito del buddismo, che invita a ricercare l’equilibrio». 
Nata a Shanghai nel 1949, quando Mao conquistò il potere, da piccola si trasferì a Pechino con la famiglia, colta e borghese. Troppo. Il regime gliela fece pagare con l’avvento della Rivoluzione culturale, quando Zhu Xiao-Mei, allieva prodigio del Conservatorio, fu inviata in un campo di rieducazione ai confini con la Mongolia. Solo nel 1980 riuscirà a fuggire dalla Cina. Negli Stati Uniti si ritroverà a fare le pulizie nelle case dei ricchi, a spolverare i loro Steinway. Poi a Parigi la rivincita e il successo. L’ha raccontato in Il pianoforte segreto, che esce oggi in Italia per Bollati Boringhieri.
È proprio convinta che Bach fosse buddista?
«Bach in tedesco significa ruscello. E Laozi, padre fondatore del taoismo, diceva che bisognava vivere come un ruscello: mai salire, sempre scendere e scorrere. Come fa lì la Senna».
Lei suona Bach ogni giorno?
«Sì, è la mia meditazione».
Come descrive il suo modo di suonarlo?
«Non è un’interpretazione austera, né manierata. Ma serena, naturale».
Come il mitico Glenn Gould?
«Era un immenso pianista, ma il suo modo di suonare Bach era troppo intellettuale».
Quando suonò lei per la prima volta Bach?
«Avevo cinque anni: mi spinse mia madre. Negli Anni 30 le donne cinesi non potevano fare musica, era considerata un’attività troppo fatua per loro. E così mio nonno glielo impedì. Ma quando lei si sposò, le regalarono un pianoforte. Iniziò a studiare, ma era troppo tardi per diventare una concertista. Cercò di realizzare il sogno attraverso di me».
Non è stato troppo pesante per lei?
«No, mia mamma era molto discreta, fine. Aveva tanta sensibilità: era gentile, non c’era mai violenza nel suo modo di fare. Aveva classe. Sembrava una donna italiana».
Nel 2014 lei è ritornata in Cina e ha ritrovato quel pianoforte a casa delle sue sorelle.
«Il suono ormai è quello che è. Ma interpretare Bach lì sopra ha risvegliato in me ricordi toccanti, dolorosi e felici. Fu lo stesso che riuscii a portare dove ero stata inviata per la “rieducazione”».
Partì da Pechino in treno alla fine del ’68, con i suoi compagni del Conservatorio. Sapevate cosa vi aspettava?
«No, allora ero ancora rivoluzionaria. A destinazione, in dodici dormivamo insieme in una stanza, per terra. Era durissimo, ma pensavo che fosse necessario per la rivoluzione. Rapidamente, senza libri da leggere o musica da ascoltare, capii che non era vero».
Già prima a Pechino aveva dovuto subire le sessioni pubbliche di autocritica…
«Dovevo accusare anche i miei genitori. E il peggio è che ci credevo. Quelle riunioni mi hanno segnato a vita. Ho un senso di colpa costante».
Anche quando sale su un palcoscenico?
«Anche dopo il concerto mi sento colpevole. Credo di non aver suonato bene».
Come si riappropriò della musica durante la Rivoluzione culturale?
«Per cantare gli inni rivoluzionari mi dettero una fisarmonica. Scattò qualcosa. Chiesi a mia madre di inviarmi da Pechino il pianoforte. Lo fece caricare su un treno che trasportava il carbone. Arrivò dopo tre mesi. Andavo ogni giorno alla stazione ad aspettarlo».
Ha creato il festival della Haute Clarée, in Francia, subito al di là delle Alpi, venendo da Bardonecchia. Perché in alta montagna?
«Lì il rumore è solo quello degli uccelli. E il cielo è sempre diverso. Mi piace camminare da sola tra i monti: si può riflettere, sentire il senso della vita e della musica. In città c’è troppa gente. Perché vogliono stare tutti insieme? E fare tutto quel rumore?».
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