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 2018  giugno 13 Mercoledì calendario

Mediobanca, cosa c’è dietro la strategia di Nagel?

Il futuro di Mediobanca? Una public company, solida patrimonialmente, capace di sostenere grossi investimenti e distribuire alti dividendi con tre aree di business: corporate & investment banking, credito al consumo e wealth management. E un fiore all’occhiello: il 10% delle Generali. Il Leone di Trieste è parte del dna di Mediobanca. Il legame è iniziato negli anni 50 e si è consolidato nel tempo fino all’operazione Euralux quando la Montedison di Eugenio Cefis vendette alla società lussemburghese un grosso pacchetto di azioni della compagnia, messo assieme dalla Montecatini. La vendita del 4,8% poteva destabilizzare gli assetti di comando dell’assicurazione. E così il senatore Cesare Merzagora, allora presidente dell’assicurazione, chiese a Enrico Cuccia di trovare un acquirente. Il grande vecchio del capitalismo italiano propose l’affare agli amici della Lazard. Che tuttavia non potevano o non volevano farsene interamente carico. Da qui l’idea di Euralux. Gli iniziali soci di Euralux, oltre a Lazard, erano tre: le stesse Generali, gli Agnelli e Camillo De Benedetti. Fino a che nel Duemila, dopo una serie di scontri e battaglie finanziarie, Vincenzo Maranghi ebbe buon gioco nel rilevare il pacchetto Euralux raggiungendo così il 14% delle Generali.

«Soci di prestigio»Il tema del controllo della compagnia è tornato sotto i riflettori, complice gli acquisti del gruppo Benetton e Caltagirone e l’attesa riduzione della partecipazione da parte di Mediobanca. «Tutti gli azionisti italiani – ripete Nagel – oggi nel capitale Generali sono soci di prestigio, il meglio che c’è nell’imprenditoria italiana e sono un fattore positivo. Generali deve avere cuore e radici in Italia, ma è nella sua tradizione il fatto che debba avere una presenza crescente all’estero».
Mediobanca, però, da tempo non è solo Generali. Il cambiamento è iniziato nel 2003 quando Maranghi fu costretto a lasciare, ma riuscì a imporre alla guida Nagel e Renato Pagliaro. La diarchia resse vari anni ma non poteva durare all’infinito e così nel 2008 la Banca d’Italia mise fine a quella anomala governance: Nagel fu nominato amministratore delegato e Renato Pagliaro presidente. Entrambi avevano le doti per diventare il capo azienda ma alla fine si è imposto il più manovriero e diplomatico. E, forse, è stata la soluzione migliore. Schivo, riservato, fedele custode delle virtù dei suoi maestri, Pagliaro possiede doti poco apprezzate nel balletto mediatico della finanza. I due manager hanno, comunque, continuato a difendere i valori dell’istituto. La banca non è diventata un polo aggregante ma ha mantenuto la sua diversità e la sua identità, garantendo un’indipendenza di pensiero che rappresenta la vera natura di Mediobanca. Nagel ha poi due caratteristiche fondamentali: sa resistere ed è abile nell’arte della navigazione. Certo l’istituto non è più il crocevia della finanza italiana ma ha conservato un potere d’influenza e una capacità di ascolto che porta affari e produce utili. Significativa a questo proposito la candidatura di Antonio Guglielmi alla guida operativa del Mef. Guglielmi, attuale capo equity market di Mediobanca, è salito agli onori delle cronache quando, da stimato capo degli analisti, firmò uno studio in cui elencava i costi e i benefici di un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro.

Le partecipazioniQualche settimana fa Mediobanca ha archiviato un altro trimestre positivo che conferma il trend di crescita. La prima vera svolta è avvenuta con il piano strategico 2013-2016. In quel momento piazzetta Cuccia ha voltato pagina rispetto al modello di business passato, caratterizzato da un forte peso delle partecipazioni. In rapida successione sono stati disdettati gli accordi Telco e il patto Rcs e disposto la vendita di partecipazioni per 2 miliardi. Un percorso non privo di ostacoli e dolorosi incidenti. Il caso Fondiaria-Sai e la relativa inchiesta della magistratura, per esempio, hanno lasciato un fardello pesante. La nuova strategia, comunque, è risultata subito chiara: stabilizzare i ricavi eliminando la volatilità legata alle partecipazioni, creando un modello di business più semplice e redditizio.
L’attuale piano segue la strada tracciata puntando ad accrescere l’espansione e la redditività di tutte le divisioni. Un focus particolare è stato posto sullo sviluppo del risparmio gestito attraverso la crescita interna ma anche con acquisizioni di peso. Rientra in questa logica l’evoluzione di CheBanca! da banca giovane e multicanale a operatore specializzato nella gestione del risparmio per i clienti di prima fascia.
A servizio dei grandi patrimoni privati invece è stata lanciata Mediobanca private banking, divisione nata in seguito all’acquisizione di Banca Esperia. Infine è stata rafforzata la fabbrica dei prodotti con lancio di Mediobanca Sgr e la costruzione di una piattaforma digitale Asset Management (con l’acquisizione di Cairn Capital e Ram). La piattaforma di wealth management registra un patrimonio gestito di quasi 37 miliardi. Per ridurre la volatilità delle commissioni sono aumentate le operazioni senza trascurare quelle più grandi (Atlantia su Abertis, di Gip su Italo, di Intrum su portafoglio e piattaforma npl di Intesa e di Yoox nell’offerta Richemont).
Tra tutte va segnalata l’advisory di Intrum su portafoglio e piattaforma npl di Intesa perché ha segnato un cambiamento radicale nei rapporti con la banca guidata da Carlo Messina. Il tentativo di scalata di Generali da parte di Intesa è ormai solo un ricordo.
Molti target del nuovo piano sono già stati superati: tra questi l’innalzamento del dividendo e il conseguimento di un Roe al 10%. Nei primi nove mesi Mediobanca ha registrato il record di ricavi (1,8 miliardi) e di utili (682 milioni), mostrando una solidità patrimoniale (Cet1 al 14%) e una qualità degli attivi tra le più alte in Europa.

«Preparati sul patto»I bilanci e il mercato danno dunque ragione alla strategia di Nagel. Resta però da tagliare l’ultimo cordone ombelicale con il passato: l’azionariato. Attualmente il patto di sindacato vincola il 28,5% del capitale e scade a fine 2019. Il patto si scioglie automaticamente se le quote sindacate sono inferiori al 25% ed è prevista una finestra di uscita anticipata, con disdette entro settembre. Recentemente il ceo ha precisato che Mediobanca «non ha ricevuto comunicazioni di uscita dal patto» né da Unicredit (8,4%), né da Vincent Bolloré (7,86) e neppure da altri soci. «In ogni evenienza – dice Nagel – sia nel caso in cui il patto si sciolga anticipatamente, sia nel caso in cui prosegua fino alla scadenza naturale, siamo preparati».
Qualche rumor a Piazza Affari aveva cominciato a prendere corpo dopo che Vincent Bolloré era finito in stato di fermo per un’inchiesta della magistratura francese riguardante le sue attività in Africa. Ma il finanziere non è un tipo che si arrende facilmente. E Vivendi ha fatto sapere di non avere intenzione di abbandonare l’Italia. E neanche Unicredit sembra interessata a lasciare. Specialmente dopo che sono state ufficializzate le indiscrezioni su una possibile fusione con Socgen. Jean Pierre Mustier ha ben compreso la tipica politica italiana dei due forni e non è un caso che nei giorni scorsi Unicredit abbia siglato anche una partnership strategica con Allianz e Generali per la distribuzione di prodotti assicurativi nel Sud-Ovest europeo. Improvvisamente l’abile ma sempre teso Mustier ha dato il via alle danze, muovendo il cavallo nello scacchiere della finanza. L’accordo consente di rafforzare i rapporti con Allianz, grande azionista di Unicredit e da sempre molta attenta alle sorti di Generali (leggi Zurich); nello stesso tempo di stringere legami operativi con Trieste, saltando la mediazione di Mediobanca. Ma non finisce qui. Mustier potrà stringere relazioni con tutto l’establishment bavarese, determinante nella partita della privatizzazione di Commerzbank. Se la fusione con SocGen non andasse in porto, si potrebbe aprire la finestra Commerz che Berlino metterà sul mercato il prossimo anno.
Volente o nolente, il destino dell’istituto resta legato alle scelte di Mustier. Prima di qualsiasi aggregazione europea il capo di Unicredit probabilmente dovrà decidere che cosa fare di Mediobanca-Generali. Nei prossimi mesi l’istituto milanese scenderà dal 13 al 10% del Leone, vendendo azioni sul mercato. Non ci sarà la ventilata redistribuzione tra gli attuali grandi soci, anche se si sa che Benetton e Caltagirone stanno aumentando le quote mentre Del Vecchio sembra restare alla finestra preferendo consolidare il rapporto con Unicredit (leggi Ieo). Una Mediobanca public company, con i conti tirati a lucido e una partecipazione del 10% nel colosso triestino è, comunque, un affare per qualsiasi investitore o per qualsiasi fondo speculativo. Che cosa accadrà allora nel 2019? Sarà rinnovato il patto? Mustier preferirà la vocazione europea e sceglierà la terza via, consolidando la presenza in Mediobanca, acquistando magari la quota di Bollorè? Verrà lanciata un’Opa da una banca estera? Interverrà un cavaliere bianco? Impossibile rispondere. L’unica certezza è che Mediobanca è cambiata.