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 2018  giugno 13 Mercoledì calendario

Intervista a Cesare Cremonini: «Al centro del mio uragano»

Tutta la vita, a far suonare un pianoforte: «Di notte non arrivo mai alla fine dei miei sogni. Mi risveglio sempre sul più bello, come un televisore che si spegne sull’ultimo calcio di rigore, a un passo dalla meta. Così da sempre vado a cercare il gran finale dei miei desideri nella realtà. Forse per questo ho iniziato a scrivere poesie che ero ancora un bambino e ho continuato a immaginare di poterlo fare per sempre.

Da ragazzo, durante le prove dei concerti che tenevo alle feste liceali, salutavo un pubblico immaginario: “Ciao Milano”, “Ciao Bologna”, “Ciao Roma”, e adesso che a 38 anni ho raggiunto un traguardo simbolico e tremendamente concreto, suonare davvero negli stadi di quelle stesse città, sento, senza spaventarmi, che un percorso si è compiuto e che assecondare la passione di un’intera esistenza mi è servito a regalarmi una bellissima prospettiva di libertà. Sono quello che avrei voluto essere e comprendo che tutto il tempo speso per capirmi, mettermi a fuoco e regalarmi un’identità non è stato tempo perso». Con la stazione di Casalecchio di Reno davanti agli occhi e la gente che per strada lo tratta come un elemento naturale del paesaggio aiutandolo a mantenersi nei binari: «Grande Cesarone!», Cesare Cremonini pensa ai chilometri percorsi e ai treni ancora da prendere. Ad alta velocità: «Ma sarebbe meglio dire alla velocità della luce», Cremonini ha imparato a viaggiare prestissimo. Eleggendo i percorsi improbabili e gli scenari possibili con la stessa autonomia che oggi, mentre la città che gli ha dato i natali, Bologna, è ai suoi piedi, lo ha portato a costruire il suo studio di registrazione in periferia, a un passo dai colli, quasi in aperta campagna. «Nel luogo in cui in fondo», dice, «sono cresciuto» e dove, nota con ironia, gli amici di sempre lo vengono a trovare di rado: «Mentre lavoravo all’ultimo album ho fatto un esperimento sociale. Li ho invitati tutte le settimane a mangiare una pizza con me, sono venuti una sola volta. Nessuno ha voglia di muovere il culo dal centro per venire a trovarmi. “Siamo stanchi”, “Lo studio è lontano”, “La prossima settimana Ce”». Giura di soffrire di solitudine ma si capisce benissimo che se avesse intorno un cerchio magico soffrirebbe di più. La normalità gli permette di ridere, esplorare il paradosso, non prendersi troppo sul serio: «150.000 persone hanno deciso di arrivare da tutta Italia per vedermi esibire a pochi metri di distanza, ma a volte i miei amici non sono disposti a cenare con me gratis. Mi capita di uscire dal mio studio di notte, con una nuova canzone tra le mani, raggiungere Bologna e girare in macchina per ore ascoltandola, finendo a guardare le stelle con una piadina in mano, sui colli. Vorrei cenare con qualcuno ogni tanto» (ride). A disegnare mondi inesistenti, una costante dei creativi che all’occorrenza sanno recitare, non rinuncerebbe: «A scuola inventavo storie per conquistare le ragazze e in 7 giorni scrivevo diari di 100 pagine che avrebbero dovuto riassumere tutta una stagione: “Ti amo segretamente da oltre un anno”. Ma non funzionava. Avevo tante doti, ma non gli occhi azzurri». Cremonini ha un suo alfabeto e con altri codici non si ritroverebbe.

Una lettera di questo alfabeto?
«La a di Africo, un paesino calabrese dove nel 2002, durante un’estate in cui suonai per 50 date tra feste di piazza e concerti gratuiti, mi ritrovai ad avere come camerino la bottega di un barbiere. La gente entrava e usciva per radersi la barba mentre il suo assistente mi fissava appoggiato alla parete. Erano tutti imbarazzati. Preoccupati che mi dispiacesse, ma io ero contento. Ne approfittai per tagliarmi i capelli prima del concerto e fare due chiacchiere con l’assistente, che conosceva tutte le mie canzoni. L’importante nella vita è sapersi adattare».

Oggi la aspettano gli stadi. È cambiato tutto.
«Sì, anche il parrucchiere. Ora in tour mi segue ovunque vada. Ma l’emozione è identica. È chiaro che affrontare 60.000 persone costringe a un lavoro enorme su se stessi, così adulto e profondo, che forse a vent’anni non avrei potuto superare. Non esiste però un palcoscenico in cui mi sia sentito più o meno felice. Sono sempre stato innamorato del mio mestiere, ad Africo come a San Siro. Mi sono immerso da ragazzino nel mondo dello spettacolo e ho capito subito, entrandoci da sconosciuto, che non esiste un pubblico di serie B».

La felicità è importante per lei?
«Non l’ho mai sopravvalutata, perché la felicità ha un solo difetto che la rende fragile: purtroppo dipende da quella degli altri. La società cambia in fretta e non sempre mi sento allineato con lei. Ma quest’anno ho attraversato un cambiamento che ha richiesto coraggio. Mi sono detto: “Chi sei? Che persona porti sul palco?”. Per incontrare un pubblico così ampio era necessaria una riflessione intima. L’ho fatta e credo di non essermi mai sentito così felice in vita mia».

Perché?
«Perché in passato identificavo la serenità  come qualcosa che aveva a che fare solo con la scrittura. Trovare un ritornello o una strofa convincente mi dava la gioia effimera del podio. Una volta sceso e messa la medaglia nel cassetto, ritornava l’inquietudine. È stato un grave errore. La ricerca costante di quel momento per anni è stata una ossessione continua».

Cos’è cambiato?
«Ho avuto voglia di abbandonare il me stesso di ieri per andare incontro a una nuova fase della vita, ho cercato di rompere il vetro per raggiungere una sicurezza che riuscivo a vedere ma non a toccare. Ho inseguito il coraggio di essere felice nonostante si incontri sempre qualcuno a cui in fondo dispiace che tu stia bene e ho cercato di guardare con contentezza al premio che verrà e non alla preoccupazione di perderlo».

A che scopo?
«Per essere in grado di portare tutta la mia vita sul mio palco e condividerla. Forse alcuni dischi si fanno tormentandosi, ma i grandi concerti, per fortuna, sono l’altra faccia della medaglia. Per realizzare Possibili scenari, sono entrato in sala di registrazione a 36 anni e ne sono uscito a 38, sfigurato dalla solitudine. È stato traumatico perché ho lasciato alle spalle due anni senza ricordi e senza luce. Non lo voglio fare mai più. Ora è arrivato il momento di godere, di mettersi l’abito giusto e accogliere tutti gli invitati. La mia casa ora sono gli stadi».

Chi l’ha aiutata a rompere il vetro?
«Il sano egoismo delle canzoni di Battisti».

Lucio Battisti?
«Se escludo le sigle dei cartoni animati, la prima canzone che ho ascoltato in assoluto è stata Acqua azzurra, acqua chiara. Mi diede una tale sensazione di piacere che portai la cassetta in classe per farla ascoltare agli amici. Nell’attacco c’era questa malinconia così diretta, precisa, ficcante e struggente, una malinconia brevissima, da eccelsa canzone pop, che contrastava con la fiduciosa, liberatoria allegria del ritornello. Quel contrasto mi portò lontano. Qualche settimana fa, in macchina, andando in Romagna, mi è accaduto di riascoltarla casualmente e sono rimasto colpito. Dopo così tanti anni, l’atto di coraggio di Battisti mi sembrava attuale. E quel verso, “Con le mani posso finalmente bere”, un rinnovamento che coincideva con le mie incertezze».

La preoccupano le incertezze?
«Sì, molto. Ma non ne posso fare a meno. Mi incuriosiscono. Se pensiamo al sogno, all’imprevisto, all’inatteso, le insicurezze  rendono imprevedibile il quadro. Ogni tanto è bene ammetterlo: la maggior parte dei guai ce li andiamo a cercare. In questo sono uno specialista. L’alter ego di Roger Rabbit».