Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 14 Giovedì calendario

Ritrovare il bello di scrivere a mano

Qual è la cosa più personale che possediamo, quella che comunica noi stessi al mondo? Si potrebbe rispondere: la propria fotografia. Non sono forse tutti lì a farsi selfie? Tuttavia c’è qualcosa che dice di noi più di un’immagine, anche se è un’immagine: la scrittura. A cominciare da quella scrittura che è la nostra firma. Come ha affermato Roland Barthes, con la firma avviene una cosa straordinaria: la scrittura si appropria, «cioè diventa a un tempo l’espressione di un’identità e il segno di una proprietà». Due cose in una. Già la scrittura è una forma indubbia di personalità. Ma la firma assicura a chi la produce il diritto di godere del proprio prodotto. Fu Enrico II nel 1554 a imporre al termine di uno scritto il nome di chi l’aveva composto.
Mi vengono in mente queste cose leggendo La bellezza del segno (Laterza), il libro di Francesca Biasetton, artista e calligrafa, dedicata all’elogio della scrittura a mano in un mondo che scrive sempre meno usando la matita, la penna, la stilografica o la biro. Mentre tutti battono sulle tastiere, fisiche o virtuali. Il libro di Biasetton racconta questo universo della non-scrittura nella prima parte, poi cos’è la scrittura a mano nella seconda.
Noi italiani, ci ricorda l’autrice, usiamo un solo termine per indicare tre cose diverse: la scrittura a mano, intesa come abilità comune a tutti, che s’impara a scuola; la scrittura a mano educata, seppur sempre meno praticata nelle aule; e infine la calligrafia, che è un’arte che si apprende attraverso un addestramento specifico. La “bella scrittura” non è infatti quella che s’insegna nelle scuole italiane, bensì quella che si acquisisce seguendo specifici corsi. A un certo punto del suo libro Biasetton parla del ductus, elemento importante in quel processo che Barthes chiama “scrizione”. Nel 1866 un archivista tedesco, Wilhelm Wattenbach, attirò l’attenzione sul modo e sulla rapidità con cui viene tracciata una scrittura. Il ductus non è una forma, bensì un movimento e anche un ordine. Barthes vi dedica un capitoletto delle sue Variazioni sulla scrittura, per dire che ductus coglie l’atto del farsi dello scrivere (ed è quella che chiama “scrizione” differenziandola da “scrittura”). Lo spiega benissimo, come ci ricorda l’autrice di questo elogio: «Il ductus è al tempo stesso l’ordine in cui la mano traccia le diverse linee che compongono una lettera (o un ideogramma) e la direzione secondo cui ogni singolo tratto viene eseguito».
Detto altrimenti: «È il gesto umano nella sua ampiezza antropologica». Tutto quello che noi facciamo è legato al corpo. Il gesto più breve che compiamo non può mai scendere al di sotto degli 8 centesimi di secondo; questa è la velocità alla quale scolaro allenato esegue i tratti della sua scrittura. Ci sono poi altri dettagli che riguardano le forme che tracciamo: i cerchi delle lettere sono retrogradi, al contrario delle lancette dell’orologio; i tratti lunghi sono svolti più velocemente di quelli corti e nella scrittura corsiva, se i tratti si equivalgono, impieghiamo lo stesso tempo a tracciare una a e una d; scriviamo più facilmente le gambe inferiori di quelle superiori; più velocemente una virgola di un punto: bisogna alzare la penna e staccarla dal foglio, quindi posarla.
La calligrafia, proprio perché manuale, «è naturalmente naturale», scrive Biasetton.Questa naturalità è importante in un mondo in cui tutto si fa sempre più usando macchine.La scrittura, ripete Barthes, è dalla parte del gesto, «mai da quella del volto»; è tattile, non orale. Forse è per questo non ci riconosciamo nelle fotografie?Mentre riconosciamo sempre la nostra scrittura? Da anni mi è rimasta impigliata nella rete della memoria una frase di Aldo Moro in una delle sue lettere dal carcere brigatista: «Scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia». Sin da quei giorni ho pensato che l’immagine più veritiera del suo corpo, trapelato attraverso due sole fotografie, fosse proprio la sua calligrafia. Mi chiedo sovente quale sia il ductusdegli uomini politici, la loro calligrafia e la loro firma. Di Silvio Berlusconi abbiamo visto la firma nelle occasioni in cui l’ha apposta in documenti ufficiali, come la sua celebre lettera d’intenti inviata a Barroso e Van Ronpuy. Così oggi capita di vedere la firma di Trump esibita in calce ai suoi atti governativi.Le scritture sono tante quanti sono i corpi. Scrivere a mano, ripete l’autrice del libro, fa bene al cervello, lo ripetono anche i neuroscienziati. La ragione è semplice: ci mette in rapporto con lo spazio, con quello del foglio, ma anche con quel grande foglio che è il mondo, dove noi camminiamo e viviamo ogni giorno. Niente è più personale di questo: scrivere e camminare.