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 2018  giugno 14 Giovedì calendario

Amori e molte incomprensioni. L’incontro di Roth con il cinema

Sette film tratti da altrettanti testi di Philip Roth e nessuno dotato di pregi cinematografici tali da consentirgli un posto se non nella storia almeno nella memoria. Su alcuni di questi, è vero, Roth aveva espresso giudizi favorevoli, sul primo, La ragazza di Tony (1969, da un racconto compreso nel volume Goodbye, Columbus) e, pare, anche sull’ultimo, Pastorale americana: Ewan McGregor, protagonista e regista, raccontava che lo scrittore, parlando con il produttore del film, si era detto soddisfatto del risultato. Dettagli, comunque, che non cambiano il giudizio generale su queste pellicole, fatalmente troppo lontane dall’altissimo livello della prosa, dalla ricchezza e complessità delle invenzioni di Roth. Forse, in questo caso, non si tratta solo della regola per cui la versione per lo schermo di un’opera letteraria è sempre inferiore all’originale. Forse questa mediocrità dei film tratti da Roth ci dice anche qualcosa del rapporto che lo scrittore ha avuto con il cinema (e la televisione). Cioè, di una sostanziale indifferenza nei confronti delle immagini dello schermo, e la convinzione che la scrittura fosse un’operazione creativa infinitamente superiore al cinema. Così, nel 1987, in una lettera a Hanif Kureishi impegnato nella riduzione in film di My Beautiful Laundrette di cui aveva scritto il soggetto per una fortunata serie televisiva, Roth, che aveva letto dei racconti del giovane scrittore, gli diceva: «Sento che puoi comunicarci il tuo mondo in maniera più efficace con la fiction piuttosto che con i film». Più volte, negli anni, ringrazierà i suoi professori che gli avevano insegnato a distinguere le cose serie dalla «pseudocultura pop», di cui appunto il cinema farebbe parte. 
Da ragazzo, a Newark, andava al cinema come tutti i suoi coetanei. Ma non importava quale fosse il film, ciò che contava era ritrovarsi in gruppo il venerdì pomeriggio per poi finire la giornata a ridere e mangiare bagel. Dei film che gli erano rimasti impressi, Roth ricorda la serie di Andy Hardy, l’adolescente scavezzacollo ma in fondo bravo ragazzo interpretato da Mickey Rooney; un film che gli era piaciuto molto era Festa d’amore (1945), mieloso racconto di una festa campestre in cui forse si può incontrare l’amore. E poi, sempre negli anni di Newark, c’è l’episodio di lui e i suoi amici che vanno a vedere Estasi, un film cecoslovacco del 1933, dove l’attrice per brevi secondi mostrava il seno. In realtà, la cultura cinematografica di Roth è più ampia. Per esempio, quando ne I fatti ricorda il suo incontro con la prima moglie Maggie (nel libro la chiama Josie) la descrive così: «Era una bionda eroina più adatta alle sottili analisi di Ingmar Bergman che alle solari fantasie della M.G.M.». E nei fatti, poi, Roth pagherà cara l’infatuazione per i tormenti esistenziali di quella ragazza. Più avanti negli anni c’è l’immagine dello scrittore ormai affermato che si diverte, per strada, a recitare a voce alta l’orazione di Antonio dal Giulio Cesare di Shakespeare, imitando la voce di Marlon Brando nel film del 1953, con i passanti che si fermano incuriositi. Una passione per Marlon Brando confermata anche dal fatto che, come confessava in un’intervista, ogni anno rivedeva Il padrino. Ma il cinema, comunque, non poteva in nessun modo competere con la scrittura. La Politique des auteurs, importata dalla Francia della Nouvelle vague, lo irritava: non era giusto, sosteneva, pensare che il regista di film commerciali avesse lo stesso status di un romanziere. 
Qualcuno ha detto che Roth era uno snob che non sopportava la cultura pop. Non era vero, una delle sue più grandi passioni era stato e continuava a essere il baseball. Se ce l’aveva tanto con il cinema (e ancora di più con la televisione) era perché gli sembrava che stesse uccidendo la cultura dei libri. Nel suo romanzo La mia vita di uomo il protagonista, lo scrittore Peter Tarnopol, è terrorizzato dall’idea del divorzio: la somma degli alimenti da pagare lo costringerebbe – orrore! – a integrare i suoi guadagni facendo lo sceneggiatore. E forse era inevitabile che il cinema, che pure continuava a portare sullo schermo i suoi romanzi, lo ripagasse con altrettanta disattenzione. Leo Robson, nell’articolo uscito sul «New Yorker» nell’agosto 2016 dal titolo significativo Philip Roth Versus the Movies, cita un singolare travisamento: nel film tratto da L’indignazione uscito nel 2016, il protagonista Marcus passa la sera in un cinema, mentre nel romanzo Marcus va nella biblioteca di Newark a leggere Decadenza e caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon. 
L’ultimo capitolo di questo rapporto conflittuale con il cinema è il legame e poi il matrimonio con l’attrice inglese Claire Bloom. Lui se ne era innamorato già nel 1952 quando la vide in Luci della ribalta. Quasi vent’anni dopo si incontrano a New York, lui è affascinato dalla sua bellezza, lei dal suo genio. Claire è colta, alterna cinema e teatro, è amica di personaggi come Harold Pinter, eppure, agli occhi di Roth, il suo essere attrice finirà per rovinare la loro relazione. Non c’è un finale tragico come nel matrimonio fra Arthur Miller e Marilyn Monroe, ma tra i due resterà solo odio. Lei scrive un memoir in cui descrive la vita con Roth come un inferno; lui risponde con il romanzo Ho sposato un comunista, dove Eve Frame, ex attrice, conduce alla rovina il marito, perseguitato dalla caccia alle streghe di McCarthy.