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 2018  giugno 14 Giovedì calendario

Retelit, la contesa con premier in campo

Era la Cenerentola della new economy, quando si chiamava ePlanet. Oggi si chiama Retelit e tutti la vogliono. La “piccola Telecom” – con tanto di piccola rete e piccola Sparkle, un cavo sottomarino che da Hong Kong affiora a Bari – ha una storia del tutto rocambolesca, che merita di essere raccontata, anche perché non è finita. È nata nel ’96 per iniziativa di Luigi Orsi Carbone che arruola nell’azionariato un parterre di nomi della buona borghesia imprenditoriale – Andrea Rocca, Angelo Moratti, Paolo Merloni, Gianpaolo Acerbi. Come il progetto Socrate dell’incumbent, anche i piani della piccola Telecom per costruire reti metropolitane in fibra si rivelano un po’ troppo avveniristici per l’epoca. Si quota quando l’euforia da new economy in Piazza Affari è già al tramonto e come start up finisce presto in affanno. La fusione con eVia, che aveva la concessione dei tubi lungo le arterie statali dell’Anas, non risolve la situazione. Per cercare di salvare il salvabile, spunta l’idea di convertire il debito commerciale in equity. È così che Sirti, il principale fornitore, diventa azionista del suo cliente che non può pagare la rete. Nel 2006, quando Sirti approda in Libia con una sua filiale – uno sbarco propiziato dai buoni rapporti tra il Governo Berlusconi e Gheddafi – pensa bene di girare ai libici azioni della società che non riesce a risollevarsi, quel 14,37% che ancora oggi è parcheggiato nella finanziaria lussemburghese Bousval. Ma con la caduta del rais nel 2011, quel pacchetto di azioni diventa indisponibile perché non si sa bene a chi faccia capo. Fatto sta che i libici rimangono in cda fino alla scadenza del mandato nel 2014, contribuendo a una governance bizzarra, con un organigramma che non prevedeva ad, ma solo un presidente affiancato da un comitato esecutivo.
Alla fine un gruppo di soci con circa il 20% – Borghi, Van den Heubel e Pretto – decide di arruolare un “vero” management e chiama l’attuale squadra di vertice, con il presidente Dario Pardi e l’ad Federico Protto, un ingegnere formatosi alla scuola aziendale di Telecom Italia. All’assemblea del 7 gennaio 2015 c’è una sola lista da votare per il cda perché i libici si fanno invalidare la loro per incidente “culturale”: tre candidati uomini, senza rispetto delle regole di genere. Pardi e Protto ereditano una realtà con 37 milioni di ricavi e 8 di perdite, ma che basta “gestire” per rimettere in carreggiata. Prima grana da affrontare: la partecipazione al consorzio internazionale del cavo sottomarino che vede impegnata la società per 50 milioni che non ha. In soccorso, grazie alla garanzia su parte della rete, arriva un pool di banche – UniCredit, Mps e Bpm – che mette a disposizione 30 milioni. I conti cancellano il rosso già dal primo anno e il 2017 si chiude con un giro d’affari quasi raddoppiato a 65,4 milioni, 26,9 milioni di Ebitda, e 11,4 di risultato netto. La cassa netta quasi raddoppia a 33,4 milioni. E finalmente il titolo in Piazza Affari rimonta: da 0,5 arriva a superare i 2 euro.
E arriviamo alle vicende di questa primavera. Il consiglio è in scadenza: senza un azionariato “stabile” chi sosterrà il management del rilancio? I vecchi soci cominciano a vendere, approfittando della ripresa delle quotazioni, e a raccogliere c’è Raffaele Mincione (il finanziere che si è affacciato anche sulla scena Carige) che con la cordata Fiber 4.0, insieme a Stefano Giorgetti e Luca Cividini, sfiora il 9%. Svm-Axxion, il fondo attivista tedesco che in Telecom ha sostenuto Elliott contro i francesi di Vivendi – in Retelit col suo 9,99% appoggia il management. Gianluca Ferrari, il 27-enne gestore italo-americano di Svm, sonda i nuovi soci per discutere dei programmi. Sulle poltrone però non c’è unità di vedute e così il fondo si rivolge ai libici. Mincione & C. stringono un patto con l’unico dei vecchi soci rimasti – la famiglia Pretto – per vincolare il 19,2% all’assemblea del 27 aprile e presentare la lista che schiera come candidato ad Alessandro Talotta, veterano del settore che sta per lasciare la guida di Telecom Sparkle. Altrettanto fanno Axxion e Bousval, con un patto temporaneo sul 24% che serve al contrario a confermare il vertice. L’assemblea non capisce il motivo di cambiare il management che porta in dote il primo dividendo della storia della società: la lista della continuità ottiene il consenso del 42% del capitale, la cordata sfidante si ferma al 24%. Mincione prova invano a fermare il voto agitando lo spettro del golden power per congelare i libici e sventolando i pareri legali di Gianni-Origoni e di Giuseppe Conte, che ancora nessuno immaginava sarebbe diventato il futuro premier. Il nuovo cda – con i libici e Ferrari – conferma Pardi e Protto e per precauzione notifica il “cambio di governance” a chi di dovere. Il 7 giugno, col nuovo inquilino di Palazzo Chigi in volo per il G7, la Presidenza del consiglio emana il decreto che applica a Retelit il golden power, dichiarandone strategiche le attività. Ma attiva l’articolo 2 della legge (non l’articolo 1 su difesa e sicurezza nazionale) che prescrive adempimenti ai quali la società dice già di non sottrarsi. Ma visto che i legali di Mincione studiano tra le pieghe del decreto come riaprire la partita, il cda Retelit (ieri) decide comunque di ricorrere. 
Nel frattempo il titolo è sceso sotto 1,7, Fiber 4.0 ha in carico la quota a 1,75 euro, finanziata almeno in parte a debito secondo il tam tam di Borsa. A fine anno scade un’opzione per rilevare un ulteriore 3,5%. Intanto però a settembre potrebbe aprirsi il data room di BT Italia, che la cordata Mincione aveva messo nel mirino, tant’è che all’inizio al posto di Talotta aveva pensato a Corrado Sciolla, l’presidente per le attività europee dell’operatore britannico. Pure Retelit è interessata, ma l’ad Protto pensa anche a come sviluppare il business, ipotizzando una collaborazione con Sparkle (al cui timone è tornato Riccardo Delleani) per servizi da offrire in comune alle aziende, laddove affiora il cavo sottomarino, e diventare così competitivi con le aree del Mediterraneo – vedi Marsiglia – che si sono già attrezzate. L’idea insomma è di costruire il “terminal” intorno alla pista di atterraggio. In campo anche Irideos, il polo dei servizi corporate di F2i, che a BT Italia guarda, a Retelit non più perchè un’Opa sarebbe troppo onerosa. Domani, chissà, se ci sarà la società della rete, magari anche piccola e grande Telecom potrebbero finire sotto lo stesso tetto. Ma è una prospettiva di anni e a Retelit, nel frattempo, potrebbe ancora succedere di tutto.