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 2018  giugno 13 Mercoledì calendario

Nostalgia Mondiale. In attesa delle prime partite la Russia rilegge l’era sovietica

Il ragno nero che vola appeso allo Sputnik: il poster dei Mondiali è una poesia dedicata al tempo che fu, all’Unione Sovietica sottratta al giudizio del tempo. Di solito la Russia propina gli echi vintage ai turisti, nei giri delle città, pigiati dentro quel che resta delle «kopeyka», le auto Vaz-2101 che ancora stanno parcheggiate sulle rive dei canali di San Pietroburgo, rottami diventati civette per nuovi locali, ma il calcio ha tolto polvere a un mondo sommerso e ha fatto emergere messaggi d’amore in bottiglia per un’epoca strozzata dal regime che in realtà si è lasciata dietro ricordi e scintille. 
Nessuno rivuole quegli Anni indietro, ma se c’è da scegliere un uomo come faccia del primo Mondiale a Est proprio non può essere un contemporaneo. E allora Lev Yashin, l’unico portiere capace di vincere il Pallone d’oro, un campione che ha giocato quattro Mondiali e rappresentato una nazione e un sistema parando pure le contraddizioni. La faccia buona del comunismo, la faccia popolare di uno che ha vissuto tutto la vita nell’appartamento di Mosca ricevuto dallo stato nel 1964. La vedova ultraottantenne Valentina Yashina sta ancora lì e oggi fa entrare le telecamere a guardare le foto sul comò, quelle in cui il marito saluta Eusebio e Pelé. Yashin è morto un anno prima della caduta del muro e non ha dovuto fare i conti con tutto quel che il Paese ha scoperto dopo e non ha visto l’indipendenza o gli oligarchi o Putin. È rimasto una leggenda e oggi come allora vola, tra i pali immaginari verso una palla che diventa mondo e richiama il primo satellite messo in orbita dalla Russia quando era ancora Urss. Quando lo spazio sembrava vicino.Esiste anche uno Yashin in 3D, ci si può giocare contro, rinasce in una simulazione che sta negli stadi e l’ingresso nel mondo virtuale non lo cambia. Sta lì, con il suo berretto, in nero totale, i guanti infilati sopra le maniche. Soffriva di depressione, ma la chiamava fatica e portava un sorriso sbilenco, emozionato e diffidente insieme, come se volesse godersi il successo ma fosse troppo consapevole della precarietà del concetto. Inafferrabile, persino per lui. 
L’eredità del borsch
La Russia si specchia dentro questo poster e si perde leggera in quella scia. Back in Ussr, un ritorno che vale persino per la generazione che non ha mai vissuto quel periodo. Lara Vychuzhanina è una giovane artista nata a Yekaterinenburg, oggi in attività a Sochi, entrambe città mondiali. Lavora con le bambole e ricompone atmosfere perse. In questi giorni propone la barbie sovietica e sarebbe una stupida trovata di marketing se non fosse perfetta, assorta dentro la cucina comune. Lei in accappatoio e il desolato Ken, con la canotta a righe, appoggiato al tavolo. E la Pravda, la vodka, il cartone di latte triangolare, le sigarette senza filtro accartocciate ma Vychuzhanina non cerca l’accuratezza, evoca l’atmosfera. Senti quasi bollire il borsch e poi ti accorgi che forse è vero perché hanno riaperto pure le cantine collettive in una versione riadattata, con i tavoli comuni che oggi piacciono anche a casa nostra e il menù a prezzo fisso nei quartieri per gli studenti.
Non è nostalgia, è un sentimento più raffinato, messo in mostra dai russi per spiegare da dove vengono. Si può rinnegare il regime, superare gli errori, non cancellare un’eredità e nella scatola chiusa dell’Unione Sovietica si è forse perso qualcosa. 
Prima era materiale pericoloso, impossibile separare i tentativi di mostrare la propria personalità dal meccanismo di massa, ma le nuove generazione sono libere di rovistare nella memoria fresca.Collezioni capsulaI russi sono fieri di ospitare i Mondiali in casa e ci vogliono mettere pure un pizzico di spirito soviet. Il fotografo Christopher Herwig lo ha spremuto in un libro, anzi due: Soviet Bus Stops, volume primo e secondo, una raccolta di fermate d’epoca. Anni Ottanta soprattutto, secondo Herwig allora qui si sfogavano così, disegnando stazioni degli autobus che sono rimaste fantasmi lungo le superstrade: «Nessuno viaggiava in macchina, i trasporti pubblici univano il Paese e c’erano dei concorsi per aggiudicare i progetti. Valeva quasi tutto così si liberava lo spirito di chi aveva idee proprie. Con quelle strane forme provavano a lasciare una traccia unica».
L’unico requisito obbligatorio era la grandezza, come quella dello sport di un tempo: invincibili armate quando il doping viaggiava libero, per tutti. Quei campioni non ci sono più e, almeno nel calcio, non circolano sostituti, ma sopravvive lo stile riproposto dai marchi allora banditi. Adidas e Umbro hanno rieditato collezioni degli Anni Sessanta, si chiamano capsula, macchine del tempo. 
La Umbro aveva disegnato le maglie di tutte le squadre dei Mondiali del 1966, l’Urss si rifiutò di indossarle. Oggi le portano i ragazzi felici di avere il mondo in casa, di non stare più dietro una cortina di ferro e di essere capaci di ricordare.