Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 13 Mercoledì calendario

Alonso, angelo sterminatore del Re di Spagna

Nell’autunno del 1888, a ventidue anni, Benedetto Croce abitava a Napoli, sul Vomero. Ogni mattina, alle otto, scendeva a piedi in città e si recava all’Archivio di Stato, dove lavorava dalle nove alle quattro del pomeriggio, e poi alla vicina Biblioteca Brancacciana.
Leggeva, leggeva: insaziabilmente. Viveva nel contingente: passando di cosa in cosa, di desiderio in desiderio, di inquietudine in inquietudine, di fantasticheria in fantasticheria, di libro in libro. Non conosceva la piena felicità del presente; e una terribile angoscia, di cui parlò rabbrividendo ancora negli anni maturi, avvolgeva le sue giornate. Infine trovò la salvezza.
Rinunciò a tutto ciò che in lui era individuale: si considerò come un semplice strumento dell’universo; abolì con un gesto tutta la ricchezza psicologica che si agitava in lui.Non viveva più nel contingente, ma nell’universale: tutte le cose che faceva le voleva non volendole; ma per qualcosa di sconosciuto che lo sovrastava.
Così ottenne due doni. Abitava nel presente, nella beatitudine del momento, che fino ad allora aveva rifiutato. E sulle sue giornate scese inaspettata la grazia dell’eterno; e la calma, che dissolse ogni inquietudine.
Tutto ciò che faceva, lo sentiva sia come assolutamente necessario, sia come assolutamente libero.
In quegli anni lesse un libro scoperto agli inizi del secolo scorso, che viene ripubblicato in questi giorni (Alonso de Contreras, Avventure del capitano de Contreras, a cura di Marco Cicala e Arturo Pérez-Reverte, Longanesi). Lo lesse con gioia, come lo lessero José Ortega y Gasset, Fernand Braudel, Ernst Jünger e più tardi Javier Marías. Alonso de Contreras era nato nel 1582 a Madrid, e cominciò a servire il Re, come egli raccontò, all’età di quattordici anni. Pretendeva di essere uno spagnolo e un cattolico purissimo, senza una sola goccia di sangue ebraico ed arabo, con la stessa solennità con cui lo pretese Sancho Panza. Parlava della “fede, a cui tenevo tanto”: il suo massimo sogno era quello di conquistare Gerusalemme, rinnovando le Crociate: in ogni occasione della sua vita, anche le minime, si sentiva “aiutato da Dio”, sebbene egli solo se ne accorgesse; serviva Dio dappertutto, in terra, in mare, e come eremita, isolato sulla Sierra di Moncayo, “con cilicio e disciplina, panno ruvido per farne un saio, un orologio da sole, molti libri di penitenza, una zappa ed un teschio”. Si faceva chiamare Alonso della Madre di Dio. Chiedeva l’elemosina: non accettava denaro, soltanto olio, pane ed aglio; e alla fine, al culmine del suo eremitaggio, andò dal Papa, dicendo che il tesoro della Chiesa era fatto apposta per lui. Perché non credergli? Era un credente, come tutti o quasi tutti gli spagnoli del suo tempo.
Ma era, al tempo stesso, uno scatenato giocatore, uno spaventoso avventuriero, un assassino senza rimorsi: le due cose coincidevano e si identificavano in lui, come a noi riesce difficile immaginare. Era molto intelligente: lo dimostra il suo libro, che brilla e scintilla di sottigliezze. Era preciso: precisissimo; come deve essere uno scrittore di razza. Non ci meravigliamo che egli abbia conosciuto il più famoso scrittore del tempo, Lope de Vega, il quale lo ospitò per più di otto mesi a casa sua, a pranzo e a cena: “signor Capitano, con un uomo come Vostra Grazia si deve dividere anche il mantello”.
De Contreras lo immaginiamo dappertutto: aveva la stoffa di Cortés, di Pissarro e di Matteo Ricci; forse solo per caso non raggiunse Città del Messico o Cuzco o Goa o il Giappone. La Spagna non gli bastava: eccolo in Italia, a Savona, a Napoli, nelle Fiandre, in Borgogna, a Palermo, in Morea, a Malta, che era il centro del suo mondo. Amava navigare: stava sempre con i piloti a guardare le carte, ad informarsi delle terre toccate, seguendo porti e rade, fino a scrivere un Portolano di tutto il levante – dalla Morea a Tripoli fino a Venezia – Portolano che regalò ad Emanuele Filiberto di Savoia.
Assoldava sempre nuove compagnie di soldati, di cui si proclamava capitano. Ma presto si annoiò ed abbandonò l’esercito: le sue truppe non erano mai stabili, come quelle dei grandi capitani della storia.
Preferiva le navi: si imbarcò sul galeone La Concepción come capitano di tre compagnie. Poi sul galeone ammiraglio di Napoli, al comando del generale Francisco de Ribera: si trovò di fronte ottantadue navi olandesi alle quali riuscì a sfuggire. Non gli importava cosa fare. Come Napoleone I diceva: “per cominciare mi butto nella mischia, soltanto dopo penso”.
Ammazzava, ammazzava: uomini, donne, amanti, amanti di amanti; soltanto il sangue lo accontentava. Di continuo faceva schiavi e li vendeva.
Malgrado la sua professione religiosa (o forse per questo), era capace di qualsiasi malvagità ed empietà. Combatteva le donne: andava a letto con loro, le forzava o le vendeva o le uccideva; nulla gli piaceva come frequentare i postriboli di Cordoba e di Siviglia. Amava la pompa, gli abiti fastosi, “le donne sposate e ragazze, con gonnelle a mezzo gamba e giacchettini rossi con le maniche corte, con calze di colore e stivaletti aperti in punta, con graziose pantofole di velluto dello stesso colore del vestito, abiti di seta o di cotonina”. Combatteva chiunque: cristiani, mori, turchi, purché potesse vincere ed ucciderli. In un momento di accensione religiosa, andò a San Giovanni di Patmos dove l’evangelista Giovanni scrisse l’Apocalisse “e si liberò dalla catena con cui era stato legato”.
Come molti personaggi del Don Chisciotte, detestava soprattutto i mori che, sebbene cacciati dalla Spagna, erano ancora la parte fondamentale e nascosta della società: essi tagliavano le teste ai morti, bruciando i loro corpi, mentre ai vivi mettevano al collo una filza di teste e una picca in mano, con un’altra testa piantata sulla punta. Gli spagnoli sospettavano che i mori volessero sollevarsi: e lui li fece impiccare. Secondo Contreras, essi erano il male – il male assoluto – che bisognava perseguitare in qualsiasi modo.
Alla fine, a forza di uccidere e rubare e vendere schiavi, Alonso de Contreras diventò ricco – anzi, opulento, e si gloriava della propria ricchezza. A Nola, vide un’eruzione del Vesuvio, scorgendo un gran pennacchio di fumo: via via che il giorno avanzava, il sole si oscurava e cominciò a tuonare e a piovere cenere. La gente si spaventò e abbandonò la città. “Fu quella una notte così orrenda, che credo non ci sia eguale nemmeno nel giorno del giudizio”: non solo cenere, ma dal cielo cadevano al suolo anche pietre infuocate. Quella notte si ebbero scosse di terremoto, che fecero crollare trentasette case: i cipressi e gli aranci si squarciarono, come se fossero divisi da asce di acciaio.
Il mercoledì non si ebbe quasi giorno, e fu necessario tener sempre la luce accesa.
Il duca di Albuquerque, Viceré di Sicilia, donò ad Alonso il governo di Pantelleria, “un’isola che si trova quasi in Berberia, con una piazzaforte e centocinquanta soldati spagnoli”. Alonso rimase al governo di Pantelleria per sedici mesi, restaurando la chiesa della Madre del Rosario e dotandola di molte rendite. Poi il Viceré lo mandò ad Aquila, col titolo di Governatore e di Capitano del Re. Quando la città si rivoltò, egli cominciò ad arrestare tutti gli indiziati. “In quelle terre si aggirava un brutto tipo che commetteva ogni sorta di prepotenze e di bravate contro la povera gente delle campagne e persino contro i conventi delle monache”. Alonso fece montare un palco in mezzo alla piazza; e ordinò a un boia – un boia poco pratico – di tagliare le teste ai criminali; e gli diede in compenso un vestito e dieci scudi. Non sappiamo quando Alonso de Contreras sia morto.
Il suo libro così attraente e ripugnante, così vero e inverosimile rimase incompiuto.