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 2018  giugno 11 Lunedì calendario

Ecco cosa leggerà domani Zadoorian a Roma

Da dove viene quello che scrivi? Mi fanno sempre questa domanda. E non so mai cosa dire. Quando cerco di pensarci, la risposta mi sfugge. Mi metto a scrivere e le parole arrivano da sole. Ma una certezza ce l’ho: quando intraprendo un nuovo progetto, ho la precisa sensazione di aver pensato a quel particolare argomento, e di averlo approfondito inconsapevolmente per molti anni, addirittura decenni. Molto, molto tempo dopo aver finito, ho l’impressione che tutto abbia silenziosamente portato al momento in cui ho cominciato a scrivere. In altri casi, posso ricondurre quello che scrivo a un luogo particolare dentro di me, un particolare stato mentale. Nel caso di In viaggio contromano, era un luogo di dolore e sofferenza, estenuazione e sollievo. Quel libro, me ne rendo conto ora, è stato lo sbocco di anni di apprensione per la mia famiglia: assistere al deterioramento mentale di mio padre, al deterioramento fisico di mia madre.
IL RIFIUTO
Ma so anche che quel romanzo ha preso le mosse da un altro luogo. Da un tipo diverso di dolore, un dolore maggiormente connesso alla parola. Più precisamente, a una parola: rifiuto. L’esasperazione dell’indifferenza del mondo editoriale rispetto al mio lavoro. La pena di sapere che nessuno si interessa alle parole che scrivo. Tutti gli scrittori sanno che questa è l’unica situazione in cui nessuno ti fa domande del tipo: Da dove viene quello che scrivi? Perché a nessuno importa. Dopo che Second Hand è stato pubblicato in America, nel 2000, avevo stupidamente pensato che far uscire un altro libro sarebbe stato più facile. Invece, sono passati cinque anni. Ho scritto un altro libro che nessun editore voleva, mentre l’Alzheimer di mio padre si aggravava. Alla sua morte, mi sono sentito senza ormeggi. Già orfano a metà. Contemporaneamente, anche il mondo letterario mi aveva abbandonato. Avevo perso il mio editore, il mio editor, il mio agente. Ero solo. È emerso che sarei dovuto ripartire da zero. (...) Ma torniamo a quella domanda insidiosa: Da dove viene quello che scrivi? Dobbiamo sapere che se il dolore, il rifiuto e l’abbandono possono innescare quel flusso di parole, è ragionevole pensare che quel flusso possa essere ugualmente innescato da qualcosa all’estremo opposto dello spettro. Un libro può originarsi in un luogo di allegria, di piacevolezza, o persino da una specie di gioiosa ossessione. È il caso del mio nuovo romanzo Beautiful Music.
IL FLUSSO DI PAROLE
È il momento di parlare del flusso di parole che sgorga dalla gioia. Appartengo a una determinata epoca. Un’epoca in cui la musica con cui sono cresciuto, il rock and roll, era la musica più popolare in America. Ma questo era prima che diventasse la musica dei dinosauri, la musica guardata con sufficienza dalla cultura punk, anche se in realtà l’aveva fatta germogliare, la cultura punk. La musica che era nata ribelle, poi era diventata eccessiva, pesante e disorientata, e molto più avanti la musica che facevano ascoltare nei grandi magazzini vicedirettori con baffi, cravatta e camicia a maniche corte. Era diventata una musica radicalmente fuori moda. Per molto tempo, ho evitato il rock classico. Mi sono sforzato di dimenticare che a volte ero ossessionato da questa musica, che era la colonna sonora, piena di feedback, della mia giovinezza. Mi sforzavo di dimenticare che mi ero alzato in piedi e avevo sollevato l’accendino per inneggiare a gruppi che adesso mi suscitavano imbarazzo. Gruppi che avrebbero fatto storcere la bocca e mugugnare tutti i miei amici punk rock cresciuti negli anni Ottanta, ascoltando i Black Flag o i Red Cross o i Dead Kennedys. Mi sforzavo di dimenticare che tutte le cose importanti della mia adolescenza sono accadute con i Led Zeppelin, i Foghat o i Blue Oyster Cult in sottofondo. (...) Quello che scriviamo viene da ogni dove. Da tutto ciò che proviamo come essere umani, da tutto ciò che amiamo, da tutto ciò che disprezziamo, da tutto ciò che temiamo, da tutto ciò che ci nutre.