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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Lord Byron al di là del bene e del male. Le memorie scandalose del poeta inglese

Nessuno rappresenta meglio il contrasto tra parola e azione, tra vita e opera come Byron (Londra 1788-Missolungi 1824). Nasce zoppo, si sente segnato. Il padre dilapida la dote materna, lo lascia orfano a tre anni. Fino a dieci Byron vive in ristrettezze ad Aberdeen con la grassa madre. Ne trae la pinguedine, ne odia il carattere duro e sentimentale. Della Scozia gli resterà l’impressione del Lochnagar, del mare, della Bibbia, l’ombra di peccato e colpa del calvinismo. Legge Orazio, Shakespeare, Pope, cavalca, tira di boxe, nuota furiosamente, pronuncia violenti discorsi alla Camera. Ha due soli amici del cuore e molti spettatori, un esercito di servi e amori bisex. Con una dieta da fame raggiunge la snella trasparenza del dandy. Un’esperienza dopo l’altra assapora voluttà e tedio fino al Grand Tour dal 1809, quando all’Europa preferisce la Turchia e una Grecia dove l’amour grec si è orientalizzato: visita Delfi, intesse idilli, critica Lord Elgin e la razzia del Partenone. Al ritorno, evita di correre al capezzale della madre. Si desta di colpo famoso nel ’12 con i primi canti del Pellegrinaggio del giovane Aroldo.
Ingigantendo i miti della propria epoca, alimenta la sua fama romanzesca nel de-moniaco. Vuole sconvolgere, al di là del bene e del male. Oltrepassa ogni limite. Dipende dal proibito: la pederastia condannata con la pena di morte ma comune negli esclusivi collegi; il collezionismo sessuale femminile e la misoginia verso le intellettuali; Sade; l’incesto; l’alcol; il laudano; la devastazione delle case. Ma incarna anche nostalgia edenica, difesa del Bene e dei deboli, senso della giustizia, amore ideale, fede. Ruota in contraddizioni e contrasti: euforia e malinconia, depressione in cui si sente un nulla, esaltazione-presunzione, humour e sarcasmo. La sua lucida frenesia distruttiva è una follia non di testa, ma di cuore, che persegue teatralmente. Mai così sincero come quando recita, sebbene il fondo della sua anima sia un’identità granitica, fissa alla fantasia di espulso dal cielo per un misfatto al quale si è autocondannato: l’incesto fatale dove la sorella Augusta è l’unica che può essere amata perché proprio specchio, congiunzione con la propria stirpe.
Da un lato il dispendio fisico lo distrae dallo scrivere. Il 24 novembre 1813, l’anno più colmo di dubbi e angosce – in estate l’incesto con la sorella Augusta – annota: «Chi mai scriverebbe, se avesse di meglio da fare? “Azione-azione-azione” diceva Demostene; “Azioni-azioni” dico io, e non scritti – i versi poi, meno che mai». Dall’altro lo scrivere lo distoglie in parte da se stesso nella corsa verso il nulla. L’eccesso nella vita si sarebbe profuso in un’abbondanza geniale, ma non nella profonda dedizione che letteratura e poesia richiedono. Tale sovraccarico di tensione costituisce il fascino dei
Diari ( Un vaso d’alabastro illuminato dall’esterno, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pagine 304, euro 14), iniziati nel 1811, salvati solo in parte dagli amici Hobhouse, Moore, preoccupati con Augusta per le memorie scandalose. Vanno letti con le ancora più vivaci lettere ( Vita attraverso le lettere, a cura di Masolino D’Amico, Einaudi). Da essi consigliava di iniziare Auden, per riconoscere in Byron il vero dal falso.
Nell’esilio cui è costretto – lascia l’Inghilterra il 25 aprile 1816, dopo la separazione dalla moglie Annabelle Milbanke – non succede nulla di veramente nuovo. Ma assestatosi a Ravenna, con i moti carbonari per la liberazione dell’Italia, Byron prepara l’ultimo balzo verso il destino. Il 16 luglio 1823 salpa da Genova verso la terra fatale, la Grecia. Ha investito enormi somme di denaro, equipaggia e mantiene truppe di sulioti, i greci inaffidabili lo deludono, ma il fine della poesia di questa politica, di questa azione, di questa liberazione è ben alto: «È meglio sperare – aveva detto – anche senza speranza». Morendo il 19 aprile 2014 di febbre interna, Byron brucia la parte materiale di sé già condannata da neurosifilide. Ma come scrive il 22 gennaio del trentaseiesimo compleanno, quella era «la terra per morire con onore». Lo spirito combatte fino all’ultimo respiro. Vince.