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 2018  giugno 11 Lunedì calendario

Arrigo Sacchi: “Con l’Italia fuori il nostro tifo andrà alle idee e al gioco”

BOLOGNA
Arrigo Sacchi continua a guardare il calcio con quegli occhi a punta di spillo, mobilissimi, appassionati e insieme scettici. Occhi che hanno visto tante cose nascere, crescere e passare.
Poche, in fondo, ne sono rimaste.
Arrigo, dopo 60 anni l’Italia in Russia non c’è: per chi tifiamo?
«Per il gioco e per le idee, finalmente. Senza essere troppo confusi dal risultato degli azzurri, vediamo come giocano gli altri e cerchiamo di imparare».
Ma perché l’Italia ha fallito?
«È lo specchio di un Paese incerto e immobile, abituato ad arrangiarsi.
Gli italiani hanno la sindrome di Pollicino e sovente lo sono. Si sentono piccoli, inferiori e non fanno niente per crescere: come diceva un mio amico spagnolo, un giornalista, l’Italia è un Paese antico che ama le cose vecchie. Credo che la nostra autostima sia ormai ai minimi storici».
Il calcio italiano è davvero così lontano dai migliori?
«A parte il Napoli, siamo tornati nelle caverne, ancora fermi al “primo, non prenderle”. Ci affidiamo ai muscoli, ai chili, all’età e alla carriera di calciatori vecchi. In Italia viene considerato giovane chi ha 24 anni, all’estero chi ne ha 17. A volte vado a guardare le partite dei bambini e vedo allenatori che sbraitano e si agitano, ma nessuno che parli di gioco. E se la squadra passa in vantaggio, tutti indietro a difendere. Eppure, i maestri per primi dovrebbero sapere che il rischio è la base di ogni avventura».
Un problema tecnico o psicologico?
«Siamo perdenti a cominciare dalla testa. E non siamo neppure riusciti a definire il calcio. Un gioco? Uno spettacolo? Un fenomeno di costume? Un evento sociale?
Manchiamo di stile, non abbiamo più un tratto distintivo e il pubblico non lo pretende: è stato abituato alla religione del risultato, altro non interessa. Siamo difensivi dentro. In Olanda e in Spagna ti fischiano se vinci giocando male, invece in Italia consideriamo la furbizia una virtù».
Gli olandesi, però, non stanno molto meglio di noi e il Mondiale lo vedranno da casa.
«Perché si sono messi a difendere individualmente, persino loro che hanno cambiato il calcio per sempre! L’ho detto a Gullit: vi siete smarriti, avete smesso di aggiornarvi».
Il Mondiale mostrerà qualcosa di nuovo?
«Non si può chiedere questo a una manifestazione che dura un mese: la Coppa è uno spot pubblicitario per il calcio, ma riguarda i giocatori e non il gioco. Dicono più cose il City di Guardiola e il Napoli di Sarri che un Mondiale intero».
Però il Napoli non ha vinto.
«È la cosa più importante vista in Italia da vent’anni. Aveva giocatori quasi sconosciuti, un fatturato minimo rispetto alla Juventus che gli ha preso pure l’uomo più forte, ma ha ricordato a tutti che la bellezza è un valore, non solo un sogno. Sarri è riuscito nell’impresa più difficile: allenare il pressing.
Perché, vedete, il pressing i torinesi e i milanesi ce l’hanno nel Dna, la gente in città va di fretta, ma a Napoli non è così: dunque, certe imprese anche culturali valgono il doppio. Ma temo che senza Sarri tutto questo finirà, non me ne voglia il caro amico Ancelotti».
A volte sembra quasi che si abbia paura del gioco: perché?
«Perché per stoltezza, semplice pigrizia o abitudine, non vogliamo capire che è più facile vincere giocando bene che giocando male.
Se così non fosse, il mio Milan non sarebbe diventato la più grande squadra di tutti i tempi».
Non serve anche la fortuna?
«Io quella parola l’ho abolita. La penso come Seneca: la fortuna non esiste, è solo il talento che incontra l’opportunità».
Chi vince il Mondiale?
«Spagna e Germania giocano meglio di tutte. Non dimenticherò mai il 7-1 dei tedeschi al Brasile nel 2014: da una parte il gioco e la squadra, dall’altra un miscuglio di giocatori smarriti e sopravvalutati».
In Russia non ci divertiremo?
«Ma no, ci saranno come sempre momenti di bellezza e di emozione, però non cambieranno il calcio. La mia speranza è che un giorno la cultura sportiva riesca finalmente a convincere il pubblico che una vittoria senza spettacolo, bellezza e merito non è una vera vittoria, e che l’estetica non conta senza l’etica».
Lei crede che solo attraverso il gioco il calcio si evolverà?
«Il futuro di questo sport è il collettivo d’intelligenza, un collettivo creativo».
Eppure una prodezza, un gol di classe, una parata acrobatica sono quello che ci aspettiamo sempre di vedere. Sono il sugo, il condimento.
«Ma lo sapete per quanto tempo il pallone resta tra i piedi di un giocatore in ogni singola partita?
Dai 30 ai 90 secondi. Se ti scappa uno starnuto mentre guardi, ti sei perso per sempre la giocata. Dicono: Baggio ha salvato l’Italia nel ’94. No, Baggio ha toccato solo l’ultimo pallone di una trama di passaggi».
Però Messi, però Cristiano...
«Cristiano segna quasi sempre con un solo tocco, l’ultimo dell’azione: è il perfetto terminale del gioco di squadra. Ho letto una sua recente intervista dove gli chiedono del suo segreto e lui risponde: mi alimento bene, riposo bene e alleno il mio cervello. Così parla un campione, non solo un divo».
Sacchi, il suo Milan era pieno di campioni, però.
«Una volta Van Basten mise un foglietto sulla mia scrivania: “Mister, per favore oggi possiamo fare una partitella senza regole?” Io appoggiai sul tavolo un altro foglietto: “No”. Perché si allena prima il cervello. I nostri neuroni sono come i muscoli, se non li tieni in esercizio si atrofizzano».
Così si rischia l’ossessione, la ripetizione. Non crede?
«Un grande scrittore come Cesare Pavese sosteneva che non c’è arte senza ossessione. Bisogna essere perfezionisti, magari pensando a Salvador Dalì che ci scherzava sopra e diceva: non abbiate paura della perfezione, tanto non la raggiungerete mai».