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 2018  giugno 11 Lunedì calendario

1947, quando il mondo cambiò senza saperlo


Mentre Simone de Beauvoir va alla scoperta dell’America e seduce Nelson Algren lo scrittore di Chicago, povero, alcolizzato, ma con stigmate di genialità come si addice al mito; Hassan al-Banna, figlio di un orologiaio egiziano, elabora al Cairo la dottrina dei Fratelli musulmani: niente democrazia, le donne confinate al focolaio domestico. E ancora, mentre Christian Dior, disegna una linea di abiti femminili che cambia l’idea stessa dell’eleganza e le polemiche sono tante (troppo lusso; è il rimprovero), in Palestina a Deir Yassin, alle porte di Gerusalemme, gli estremisti di destra sionista massacrano la popolazione locale e così comincia quella che i palestinesi chiamano Nakba, la catastrofe, la distruzione dei villaggi e l’esodo di 700mila profughi. Nel contempo, una vecchia nave americana, ribattezzata Exodus, e parzialmente ristrutturata nel porto di La Spezia porta da Sète, in Francia, verso la Palestina, oltre quattromila persone senza patria, senza casa, senza una famiglia, ma i britannici ignari della potenza mediatica di quell’evento costringono i reduci dei lager nazisti a far ritorno in Germania. In Inghilterra Eric Blair, meglio conosciuto come George Orwell, vedovo, padre di un bimbo di tre anni, su una piccola isola si appresta a scrivere 1984 e durante una gita in barca rischia di annegare assieme al figlio. E poi, nella partizione tra India e Pakistan, gestita da un cugino della regina britannica, muoiono 15 milioni di persone; in Unione Sovietica Mikhail Kalashnikov inventa un’arma automatica; a Norimberga si celebrano ancora i processi contro i nazisti e per la prima volta viene usata la parola “genocidio”; nell’Argentina di Juan Perón vengono accolti i criminali fuggiti dalla Germania. Quanto sopra sono alcuni fatti messi insieme in un affascinante libro di Elisabeth Åsbrink, 1947 (traduzione di Alessandro Borini, Iperborea) accaduti nell’anno che dà il titolo all’opera. Åsbrink, svedese, giornalista e scrittrice, ha scelto quell’anno come asse della sua narrazione per ragioni biografiche e per dare un fortissimo e commovente tocco personale (non lo sveleremo) al testo. In realtà ci parla di come è nato quell’universo che oggi sta crollando davanti ai nostri occhi; ci riporta a guardare la catastrofe di oggi. Da un lato c’era la spensieratezza e la volontà di oblio; dall’altro sangue e violenza. Ma, a leggere bene il testo, l’autrice non racconta un anno di storia, ma usa quell’anno per riflettere su un periodo, tra la disfatta della Germania e la divisione del mondo in due sfere di influenza: quella sovietica e quella americana, e cioè tra il 1945 e il 1948. E nelle sue pagine ci sono, elencati, citati, usati come digressioni quasi frivole, tutti gli ingredienti con cui l’universo post-nazista è stata costruito, ma che oggi sappiamo quanto hanno contribuito alla distruzione dello stesso mondo. A partire dalle frontiere, dal rapporto tra geografia e demografia. Sono stati anni in cui si tracciavano i nuovi confini; ed erano confini etnici. Gli estranei, coloro che venivano definiti stranieri non in base al luogo di nascita ma per appartenenza linguistica, di fede o per origini di classe, dovevano andarsene, oppure morire.A pensarci bene, è come se le foto dei bambini uccisi in Siria, le immagini delle barche dei rifugiati nel canale di Sicilia; il contrasto tra l’ipermodernità di Israele e l’arcaicità degli scontri al confine di Gaza e perfino l’orrore di avere in Europa Viktor Orbán, è come se tutto quanto avesse l’origine in quel lasso di tempo, così bene raccontato da Åsbrink.