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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Intervista a Mauro Pagani

Mentre attendo, in una sala di registrazione, l’arrivo di Mauro Pagani, osservo un terzetto di giovani che sosta durante una pausa. Sono fonici e missatori che lavorano alla registrazione di un nuovo disco. È un ambiente, dalle cupe venature industriali, che Pagani ha rilevato una ventina di anni fa, in un lembo della periferia milanese, un po’ oltre la zona dei Navigli. Alle pareti un manifesto effigia Jimi Hendrix. Ha l’aria scanzonata, la sigaretta incollata alle labbra e un pezzo di chitarra che spunta con sopra la scritta “Last Night”. C’è sempre un’ultima notte, il problema è che non sai quando arriva e cosa ti porterà. Un po’ più in là, una foto ritrae la Premiata Forneria Marconi. Pagani è l’ultimo di destra e non si capisce se vuole uscire o restare nell’immagine. È il 1974, o forse il 1975: «Eravamo il ritratto di una lieve felicità conquistata con un successo improvviso. Insperato, ma non inspiegabile», mi dice Pagani che nel frattempo mi ha raggiunto. Fuori il cielo è grigio, il caldo opprimente. Qui alle “Officine meccaniche” — un nome scelto in omaggio al nonno esperto di motori — il suono ha una purezza tecnologica che stupisce. Frutto di algoritmi ai quali ormai ci siamo rassegnati a obbedire.
Le piace la tecnologia?
«Se è al servizio dell’uomo sì. Ci fu un tempo, non molto lontano, di avversione alla scienza. La caccia alle streghe tecnologiche l’aveva scatenata Herbert Marcuse con i suoi libri di condanna della tecnica e dell’alienazione. Un artista allora, parlo degli anni Settanta, aveva quasi l’obbligo di sentirsi libero da tutto questo».
Fu un equivoco?
«In un certo senso lo fu, almeno nelle sue manifestazioni estreme. Ma si era dentro un gioco di cambiamento, parola oggi molto in voga, che voleva significare: recuperiamo il tempo perduto».
Ossia?
«Vivevamo in una società arretrata, bigotta, con tassi preoccupanti di analfabetismo. Il Sessantotto servì anche ad adeguare i comportamenti sociali al resto del mondo occidentale. Fu allora che cominciò a farsi strada la categoria “giovani”. La pubblicità, la moda, la politica, i beni culturali avevano ignorato quella generazione uscita dal dopoguerra. Per me, che venivo dalla provincia e mi ero trasferito a Milano, fu una svolta».
Dove è nato?
«A Chiari non distante da Brescia che per uno venuto da una piccolo paese era il massimo della trasgressione. Sotto un cattolicesimo duro e prospero Brescia alimentava inquietudini insospettabili. Negli anni Sessanta ci fu il primo scandalo omosessuale. Rubricato come “ balletti verdi”. Incombeva il “ popolo della notte”, con le prime drag queen, i travestiti, e la moltiplicazione dei locali, dove la musica e il divertimento sfondavano le prime ore dell’alba».
E lei ha cominciato a suonare allora?
«Il rapporto con la musica ha avuto diversi momenti. Cominciò grazie a mio padre, primo flauto della banda di Chiari. Mi trasmise la passione, ma al posto del flauto pretese che studiassi violino. Col tempo cominciammo a divertirci suonando musica da camera. Eravamo mio padre, l’insegnante e me. Mancava il violoncello. Lo rimpiazzammo con uno della banda che suonava il sassofono. Ma di mestiere faceva il pellettiere. Spesso provavamo nel suo laboratorio. Ancora oggi quando avverto l’odore acuto del cuoio rivedo noi quattro inseguire le arie di Händel o di Mozart».
Perché ha abbandonato la musica classica?

«Irruppe prepotentemente il rock e il mondo musicale fu travolto da un nuovo linguaggio. Adeguato al sentimento di rivolta che iniziava a farsi strada».
Non le suggeriva nulla la presenza di Arturo Benedetti
Michelangeli?
«Sapevo che era nato a Brescia ma più che una gloria locale era una leggenda vivente. Una figura mitologica, sovrannaturale e perciò stesso irraggiungibile. Oltretutto, non viveva più a Brescia, né io l’ho mai incontrato. Ma come avrei potuto rapportarmi al suo rigore? La sua grandezza non aveva nulla di accattivante. Decisi per la musica pop. Anche se mio padre visse con disappunto la scelta».
Provò ad ostacolarla?
«No, ma non voleva che facessi il musicista. Vedeva in me quello che lui, da semplice progettista meccanico, non era stato: ingegnere. Lo delusi a tal punto che si rifiutò sempre di venire a sentirmi suonare. L’unica volta che gli si affacciò il dubbio sulla mia predisposizione al pop fu quando sentendogli fare le scale gli chiesi di prestarmi il flauto. Ascoltò in silenzio e gli lessi in volto una grande meraviglia».
In seguito cosa accadde?
«Negli anni mi feci una certa fama nel bresciano. Studiavo alla Statale di Milano e suonavo. Fu il periodo dei night. La città era come gli spicchi di un’arancia senza più la buccia. Dormivo in una pensione frequentata da ballerine, spogliarelliste, qualche ragazza di vita e un paio di papponi. La sera presto mangiavamo tutti assieme. Il crooner in giacca di lamé, le puttane con le parrucche color platino, gli stivaloni di plastica lucida e le minigonne, i protettori con le camicie aderenti e i pantaloni attillati a zampa di elefante».
Era quello il clima?
«Era uno degli spicchi: artisti, artistucoli, mezze calze, illusi e qualche rara promessa piovuta lì senza sapere come. In quell’atmosfera di spavalda ruffianeria feci il mio apprendistato. Corso Buenos Aires non era via Veneto ma sfavillava di mondi che non si sarebbero mai incontrati di giorno. Erano gli anni in cui la malavita si era iscritta all’anagrafe sotto il nome di Francis Turatello».
Lo ha conosciuto?
«Non personalmente. A volte si affacciava nel night dove lavoravo. Ricordo un uomo piuttosto bello, con addosso un cappotto di cammello che gli copriva le caviglie e un feltro grigio calato sulla testa. Entrava guardandosi in giro, l’aria spavalda con due grossi ceffi che gli guardavano le spalle. Quella Milano, contesa tra la banda di Turatello e i clan calabresi e siciliani, si liquefece dopo l’attentato di Piazza Fontana. Anche la politica, l’altro spicchio dell’arancia che conoscevo, si inasprì lasciandosi dietro una scia di violenza e di morte. Per mia fortuna nel 1970 entrai a far parte della Premiata Forneria Marconi».
Come fu l’impatto?
«Indolore, venivo da un’esperienza significativa, gli altri del gruppo avevano fondato una band che si chiamava “ Quelli” il cui successo procedeva sulla falsariga di quei gruppi italiani che facevano cover. Ma erano stanchi anche perché la vera innovazione musicale passava dai nuovi gruppi: i Genesis e i Chicago. Cercavano un flauto o un violino e io suonavo entrambi».
Ma quel nome come è nato?
«Fu del tutto casuale. Nell’altro gruppo c’era un batterista che si chiamava Marconi e la madre faceva la fornaia. A quanto pare tutte le cambiali che i “Quelli” facevano, arrivavano a questa signora, l’unica a possedere dei beni. Fu in omaggio a lei che trovammo il nome, aggiungendovi “ Premiata” per dargli il tocco della tradizione».
La Pfm è considerato uno dei grandi gruppi storici della musica italiana: cosa vi contraddistinse?
«La piena adesione ai canoni internazionali. Credo di non esagerare dicendo che fummo il solo gruppo italiano che sfondò in Inghilterra e negli Usa. Fu Greg Lake, bassista e cantante degli Emerson, Lake & Palmer, che dopo averci ascoltato in un concerto romano ci portò a Londra presentandoci al produttore Pete Sinfield. Fu Pete a lavorare alla traduzione dei testi e ad affinare le musiche al gusto inglese. Il successo arrivò quasi subito e la riprova l’avemmo al Reading Festival, la più importante manifestazione rock. Quel giorno, subito dopo di noi, suonarono i Genesis ».
Come viveste questa consacrazione?
«In maniera frenetica. Ci chiamarono a suonare in tutta Europa e finalmente si aprirono le porte dell’America. In tre tournée facemmo all’incirca centosettanta concerti. Nelle prime due da supporto alle grandi band, come i Beach Boys e i Santana. Un giornale americano scrisse che insieme ai Led Zeppelin noi della Pfm eravamo la più interessante novità europea. Poi, tutto a un tratto, perdemmo il biglietto vincente della lotteria».
Che cosa accadde?
«La nostra estrazione politica di estrema sinistra ci convinse a tenere un concerto in California a favore dei palestinesi. Qualche giorno dopo comparve su Billboard, una delle riviste più prestigiose, un articolo che, partendo dalla prima pagina, stroncava la Pfm. Il nostro manager, Bill Graham, lo stesso di Bob Dylan, che ci aveva guidati nelle tournée americane, era costernato. Ricordo una riunione drammatica che si concluse con una specie di epitaffio di Bill: dimenticatevi la West Coast. Guardammo quell’uomo, di origini tedesche, che aveva effettivamente fatto molto per noi, credendo nella nostra musica, come qualcuno che ci risvegliava brutalmente da un sogno. Qualcosa si era spezzato. Per fortuna, o forse no, cominciavo ad essere stufo del rock».
Cosa non andava?
«Il rapporto liturgico con il pubblico somigliava sempre più a uno stanco rituale. Avevo l’impressione che fossimo diventati solo un pretesto per la gente che veniva ad ascoltarci. Oltretutto, il genere di musica che suonavamo, il Progressive, stava esaurendosi. Il guaio è che non ce ne accorgevamo. Almeno fino al momento in cui decisi di uscire dal gruppo. Era il 1976».
Ci fu allora l’incontro con Fabrizio De André?
«Avvenne un po’ più tardi, quello che iniziai a fare fu ascoltare la musica che proveniva dal Mediterraneo. Fu su questo sfondo di ricchezza polifonica che in seguito sarebbe nato Creuza de ma. Fu un’esperienza che risolse la mia inquietudine musicale di quegli anni».
Come vi conosceste con De André?
«La Pfm aveva in alcune occasioni collaborato con Fabrizio. Poi ci perdemmo di vista salvo ritrovarci in uno studio di registrazione a Carimate. Era il 1981, c’era già stato, un paio d’anni prima, il rapimento suo e di Dori. Non vivevano più in Sardegna. Passammo alcuni giorni nello stesso residence. Fu un’occasione per conoscerci e alla fine Fabrizio mi propose di suonare per lui. In pratica venni assunto come flautista. Durante uno dei nostri tour gli venne l’idea fantastica di scrivere una canzone in genovese. Mi disse che le lingue diventano dialetti quando chi le parla ha perduto la guerra. Voleva tornare alla forza di certe radici. Alla autenticità dei vinti. Mi chiese di pensare alla musica. Ci mettemmo al lavoro».
Fu un rapporto complicato?
«Direi di no. Lui era molto maniacale e pieno di dubbi. Avevo messo a frutto tutte le esperienze maturate in quegli anni. Scrissi la musica e gliela cantai in una specie di arabo finto. Avvertii la sua grande concentrazione. Per allentare una certa tensione gli dissi che il tutto andava rivisto, aggiustato. Come se volessi prevenire qualche sua critica. Lui mi guardò e poi disse “ Belìn, il disco si fa così!”. Venivo da anni di musica molto verbosa. Credo che mi abbia impedito di rovinarla».
Quanto tempo avete collaborato?
«All’incirca sedici anni. A un certo punto gli venne voglia di collaborare con Ivano Fossati e a me di lavorare autonomamente. Poi, qualche mese prima che morisse, prendemmo in considerazione un nuovo progetto comune».
Di cosa si trattava?
«Fabrizio voleva realizzare un disco sulla fine orribile dello scorso secolo. Gli dissi: vuoi una musica solare? Scherzi, mi rispose, deve essere il funerale del Novecento. Fu l’ultima volta che ci parlammo, come due amici che avevano ritrovato una strada comune. La sua morte interruppe definitivamente quel cammino».
In fondo ha percorso molte strade.
«Ho lavorato con grandi artisti: Massimo Ranieri, Ornella Vanoni, Gianna Nannini e Luciano Ligabue, per fare qualche nome. Più che incontri sono state relazioni sentimentali: un dare per ricevere. Ho scritto colonne sonore per Gabriele Salvatores, ho fatto Sanremo. Mi sento a volte uno stupido ottimista. Dico sempre che il disco migliore è quello che ancora non ho scritto. Non mi sono mai tirato indietro davanti agli imprevisti e alle difficoltà e sono grato alla vita perché ovunque ho imparato qualcosa di nuovo. Detesto le persone che sputano nel piatto dove hanno mangiato. E se mi succede una cosa bella, so che potrà accadere di nuovo. L’importante è saper mettersi dove la fortuna passerà».