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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Verdone racconta Mario Brega

Marcello, alias Christian De Sica, in Borotalco ne era certo: “Se c’è ‘na cosa che m’accide è l’indifferenza”. E magari quella lezione era stata metabolizzata anche da Mario Brega, offeso, anzi offesissimo con chi gli aveva regalato ruolo e fama; ruolo ed eternità cinematografica: “Dopo Troppo Forte si è incavolato perché non gli ho più ritagliato uno spazio, e se qualcuno gli domandava di me, rispondeva sempre: ‘Verdone? Non lo conosco’. Era così, negli ultimi anni di vita mi ha offerto lo stesso trattamento riservato un tempo a Sergio Leone”.
Alto quasi un metro e novanta, o più, dipende da chi lo ha visto tranquillo o iroso, un addome che definire importante è riduttivo, mani da carpentiere o da picchiatore specializzato, una vita spesso al limite, a Roma definita da “coatto antico”, quando la criminalità diventava quasi fisiologica, l’oro addosso il parametro di valutazione e la paura andava sfidata. Qui in mezzo c’era Mario Brega, uno dei grandi caratteristi della cinematografia italiana, maschera per Leone prima, Verdone poi, quindi i Vanzina nel padre di tutti i Vacanze di Natale e altri ammennicoli da set (su Brega è uscita una biografia, Ce sto io… poi ce sta De Niro di Ezio Cardarelli, edizioni “A est dell’Equatore”).
Verdone, quindi non la conosceva: il casus belli?
Un giorno gli ho chiesto il perché dell’attrito con Leone, e Mario: “Sergio me doveva dà trenta pose, alla fine so’ diventate tre”. E parliamo di C’era una volta in America, dove a sentire lui aveva recitato quasi alla pari di De Niro.
Stessa situazione con lei.
Non l’ho più coinvolto, quindi ero rientrato nel novero dei colpevoli; però lo conoscevo bene, dentro sorridevo.
Non si è offeso.
Mai. Con Mario Brega poche mediazioni: prendere o lasciare.
Sembra lo stereotipo del romano un po’ bugiardo, un po’ megalomane, un po’ millantatore.
Aveva un carattere irruento e creativo, il prototipo del “padrino” di una certa Roma compresa tra la Magliana e via Veneto: la sua struttura fisica, lo sguardo, il tono della voce, gli ori, il tutto incuteva timore. A volte terrore.
Della serie: meglio amico.
Il sottile confine del suo carattere lo portava a slanci di generosità enorme: magari litigava, poi ti dava dello stronzo, urlava, se ne andava, sbatteva la porta, e dopo due giorni tornava con un paio di scarpe di gran marca. Conosceva tutti i negozi di via Veneto.
Anche con lei?
A me, Sergio Leone e Carlo Simi (scenografo) ha regalato qualsiasi cosa.
Perché proprio le scarpe?
Era un patito dell’eleganza, come un vecchio boss di via Veneto in stile anni Sessanta: indossava completi bianchi, anello al mignolo, occhiali costosi, e grande attenzione al tessuto della camicia, della giacca e delle scarpe, per offrire a tutti il parametro giusto della sua autorevolezza. Per il romano del tempo la scarpa rappresentava il massimo.
Riscatto sociale.
Nasceva da una famiglia dignitosa ma non benestante, con il padre lavoratore e olimpionico su percorsi lunghi, tipo 1.500 metri e 3.000…
Però mitomane.
Un po’ sì, con un carattere in grado di travolgere gli altri, e con l’utilizzo di una bella faccia tosta; Mario Brega lo dovevi prendere per due motivi: o perché avvertivi un certo timore, o perché realmente ti serviva una figura del genere. In scena portava se stesso.
Ha accentuato i suoi lati per crearsi un personaggio.
No, sono stato io a segnargli un percorso: nei film di Leone era sempre il cattivo, pronunciava una o due parole e poi prendeva a cazzotti Clint Eastwood o Lee Van Cleef. Basta. Menava. Menava sempre. Compreso Volonté.
Brega era il triplo di Volonté.
Lo so, però Gian Maria aveva uno sguardo un po’ da matto; comunque a Mario non je ne fregava niente: siccome Volonté non aveva saldato un debito di poker, allora lo gonfiò di botte e parolacce.
Picchiare Volonté era sacrilegio.
Per tutti noi Gian Maria era un rivoluzionario con il quale si scherzava poco, e sapere che era stato picchiato da Mario e per il poker, ci causò qualche risata. Lo ammetto.
Brega se ne sarà vantato.
Era il suo repertorio, così come la scazzottata con Gordon Scott, quando i due recitavano nello stesso film, Buffalo Bill, l’Eroe del Far West (1964) e Mario lo stese con un pugno al volto perché, secondo lui, aveva subìto qualche cazzotto reale durante le riprese. Sì, Brega nel cinema portava le sue imprese, e in qualche modo narrava sempre la stessa vicenda.
Di scazzottate.
Il copione era: un tizio gli diceva qualcosa di sbagliato, lui replicava, poi partiva il cazzotto con il quale gli frantumava le mucose, rompeva il setto nasale, cadeva a terra come Gesù Cristo mentre lui infieriva urlando: “Arzateeeee!”.
Ha assistito a una sua rissa?
Mai, però l’ho visto incazzato, e suscitava paura.
Con lei si scocciò per le poche pose in “Bianco, Rosso e Verdone”.
Quando gli spedii il copione, il giorno dopo venne a casa mia: “M’aveva detto Sergio che nel film ce dovevo sta’ come er prezzemolo, e invece tu m’hai dato solo cinque pose. Ciiinque poseeee!”. Poi concluse lo sfogo con uno sputo sullo scritto, “trovate n’antro attore”. Andò via.
E lei?
Per superare l’effetto-Brega l’unica chance era quella di restare in silenzio, allargare le braccia e adottare un’espressione sottomessa. Il giorno dopo si presentò con un paio di scarpe, sempre di marca.
In “Bianco, Rosso e Verdone” il suo personaggio è cult.
Sono contento di un aspetto: aver fermato nel tempo gli ultimi grandi caratteristi del cinema italiano, Mario Brega ed Elena Fabrizi (Sora Lella); quando Roma resisteva aggrappata alla sua storia popolare e trasteverina, quando si chiacchierava da finestra a finestra, la strada era un teatro, la piazza un enorme palcoscenico. Poi dagli anni Ottanta tutto è mutato.
Cosa è accaduto?
I romani sono stati deportati in periferia, nei grandi palazzi-alveari.
Fabrizi e Brega li ha fatti incontrare proprio in “Bianco, Rosso e Verdone”…
E proprio la Sora Lella è un parametro di quell’immaginario collettivo, tanto da cadere in un presunto assurdo: noi conosciamo la grandezza di Aldo Fabrizi, attore straordinario sia nel drammatico che nel comico, però se oggi domandate a un liceale chi ama maggiormente tra lei e il fratello, la risposta è: “Aldo Fabrizi, chi?”.
I giovani non conoscono neanche Mastroianni.
E Tognazzi? In una scuola di cinema si parlava di commedia italiana, quindi consiglio la visione dei film con Ugo e subito gli studenti mi fermano: “Quale dei due fratelli?”. Per spiegargli chi era Ugo Tognazzi ci ho impiegato molto, e sono andato via incazzato.
Torniamo a Brega, e a due parole chiave: poker e donne.
Mai vista una donna, su questo era riservato, e poi lo incontravo solo sui set o a casa di Sergio Leone.
Frequentava così tanto Leone?
Credo tutti i giorni, addirittura più volte al dì. Si presentava con una serie infinita di regali, magari una cassetta di melanzane, un’altra di carciofi, poi le arance, l’olio: “A Se’, assaggia! Senti che d’è!” (Verdone allunga il dito indice, mima la scena, e sembra uno sketch del suo “Borotalco”).
Proprio a casa di Leone ha deciso di prenderlo per “Un sacco bello”.

Spesso andavo a lavorare da Sergio e un pomeriggio mi dice: “Dobbiamo decidere chi interpreta il padre dell’hippie”. E giù ipotesi, nessuna emozionante. Dopo un po’ entra nella stanza Brega con la montatura degli occhiali d’oro, un crocifisso enorme al centro del petto, una serie di anelli, il suo vestito di lino bianco, e le solite cassette di frutta e verdura: “Tié, queste arrivano daaaa Calabria”.
Lei si illumina…
Guardo Sergio: “È lui”. Brega capisce: “Ma che me stai a propone ‘na parte?”. Sì. “Bello vie quaaa”, e mi abbraccia quasi a stritolarmi. Improvvisamente ero diventato il suo idolo.
Perché questo rapporto tra Brega e Leone?
Mi meravigliavo perché uno come Sergio, uno molto tosto, con Brega derogava.
Brega andava spesso in via Veneto?
Ai tempi della Dolce Vita era fisso, conosceva tutti i camerieri, era bello come dava le mance, come domandava da bere, come si rapportava ai proprietari dei night club; e manteneva un occhio a 360 gradi su quello che scorreva attorno, era come una telecamera. Allora se ti potevi permettere di perdere tre ore della tua vita in via Veneto, significava che eri uno arrivato.
Il cinema per lui è stato più un mezzo che passione?
Era innamorato del personaggio che interpretava, era un po’ vanesio, e con quel carattere complicatissimo. Era pure capriccioso. Imponeva sempre il suo truccatore e il suo parrucchiere.
Una star.
Si portava dietro tre capigruppo: uno reggeva il pettine, un altro il phon, il terzo lo spazzolava. Erano ex pugili, chiamati solo con il soprannome.
Un uomo di rispetto…
Questo era quello che amava, e l’aveva raggiunto grazie alle pellicole girate con me… pensare che quando è uscito Bianco, Rosso e Verdone, il film venne criticato rispetto a Un sacco bello, e il botteghino non proprio dorato.
Un successo alla distanza.
Tutti i miei film, compreso Compagni di scuola, hanno ottenuto il tributo dopo un po’ di anni. Lì per lì ho preso critiche, alcune brutte, soprattutto con Bianco, Rosso e Verdone, ricordo un articolo di Repubblica, dal titolo: Che ci fanno tre cretini sull’autostrada.
E lei?
Pensai: ‘Ho sbagliato film’. Poi mi venne in soccorso Sergio Citti: lo incontro un pomeriggio, ascolta il mio dispiacere, e alla fine: ‘Sbattitene il cazzo, tu hai girato un film de ‘na poesia straordenaria, la scena del cimitero vale tutto. Te lo dice Sergio Citti. Fidate’. Aveva ragione.
In “Borotalco” quante volte avete girato la scena storica dell’alimentari?
Pochissime. Il racconto di Mario Brega dentro al negozio, quando picchia due persone per strada, è un episodio reale della sua vita, quindi l’ ho lasciato libero; mentre la battuta dell’oliva ‘greca’ è una mia improvvisazione. Con lui l’aspetto complicato era ottenere un tono più baso della voce, come quando parlava con l’hippie in Un sacco bello. Urlava perennemente. Perennemente sopra le righe.
Angelo Infanti è molto conosciuto grazie al suo personaggio di Manuel Fantoni. 
Angelo era un attore vero, bravissimo e con un carattere raro per mitezza e allegria. Brega riuscì a litigare pure con lui.
Secondo i fratelli Vanzina, la scomparsa dei caratteristi è dovuta ai comici che hanno iniziato a realizzare film…
Un po’ è vero: io sono un comico e regista, eppure i caratteristi li ho utilizzati.
E qual è la parte assolutamente vera dell’affermazione?
Arrivo da una scuola seria di regia, mentre gli altri sono bravissimi a spararsi la macchina addosso, ma non hanno mai caratterizzato il contorno; e poi si sono affidati solo al direttore della fotografia per chiudere il film: la geometria delle riprese non è semplice, tra campo, controcampo e carrello. Bisogna studiare.
E poi…
Molti attori commettono un errore: pensano di poter interpretare un ruolo da protagonista, quando in realtà non hanno la struttura per reggere, mentre sarebbero degli eccellenti caratteristi. È una forma di presunzione.
I nuovi caratteristi.
Oggi per cercarli non bisogna tentare le strade segnate da Mario Brega o Lella Fabrizi, quello è un tempo morto, tempi finiti; oggi possono essere gli egiziani, i pachistani, i rumeni e l’ho capito anche dalla colazione della mattina, quando dedico almeno trequarti d’ora per parlare con gli avventori del bar e solo il 50 per cento sono italiani.
Gli stranieri conoscono i suoi film?
Molti dicono di aver imparato l’italiano grazie a me, Benedetta Follia lo abbiamo venduto in molti Paesi stranieri, anche i Balcani; anni fa mi dedicarono una personale a San Pietroburgo, e a pochi giorni dal debutto squilla il telefono, dall’istituto italiano di cultura, sono in allarme: “C’è una lista altissima di prenotazioni”. Non capivano. Poi hanno scoperto un sito pirata, seguitissimo, con tutta la mia filmografia sottotitolata in russo.
Mario Brega era fascista?
Le sue idee politiche si avvicinavano lì, soprattutto per tradizione familiare: il padre, da sportivo, per una medaglia aveva ricevuto l’encomio del Duce.
E quando avete girato la scena del “a zoccole’ so’ comunista così!”, con lui che alza due pugni chiusi?
Non fu semplice convincerlo, avrebbe preferito il braccio teso; alla fine si arrese, con la frase: ‘Va bene, accetto, ma la giro comunque a modo mio’.
Urlando…
Come sempre… Però a noi deve interessare l’attore. Quello conta. Il privato vale fino a un certo punto.
(E come diceva Brega in “Bianco Rosso e Verdone”: “’Sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma: oggi è stata ‘na piuma”. Vale anche con le parole…)
di Alessandro Ferrucci | 10 giugno 2018