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 2018  giugno 10 Domenica calendario

«Le mie ceneri le voglio nel Po». Intervista a José Altafini

Sei qui per il coccodrillo?», scherza stringendoti la mano come una morsa. Con José Altafini si ride subito perché ad Alessandria non ci sono alligatori ma c’è lui, un ragazzino di ottant’anni che ironizza sulla sua dipartita e sull’articolo da tenere nel cassetto fino a quel giorno, il cosiddetto coccodrillo. Ma quel giorno sembra lontanissimo, a giudicare dalla forma fisica. Sgambetta per i marciapiedi, sale veloce nella sua Golf, guida e chiacchiera, sorpassa, frena, accelera di colpo. «Non mettere la cintura, non serve, siamo arrivati». Finalmente parcheggia ai bordi di un capannone della prima periferia della tranquilla città piemontese. Si tratta dell’outlet e ristorante Bon Bon dell’amico ed ex calciatore Flavio Tonetto. Altafini lascia un borsone all’ingresso e prende a girare fra tavoli e stand come uno di casa. «Ciao José, cosa fai oggi?». «Ho un’intervista, mangio e arrivo». «José, vieni di là». «Ok ma prima mangio». «Dove hai messo la borsa, José?». «Amici, voglio mangiare!». Sempre disponibile, sempre allegro, sempre «incredibile amisci». 
José Altafini lavora qui?
«No no, qui do solo una mano, porto gente da Flavio. Il mio lavoro è un altro». E ti porge un bigliettino da visita: Italgreen, campi in erba sintetica.
Vende campi in erba sintetica?
«L’azienda non è mia, magari. Io aiuto, trovo clienti, faccio, promuovo. Sono testimonial. L’erba sintetica è il futuro, altro che il fango dove giocavo io».
Una nuova passione?
«È una bella cosa e mi serve anche».
Cioè?
«Devo lavorare, bisogna sempre lavorare a questo mondo, chi si ferma è perduto».
Non si gode la dorata pensione del campione?
«Mangia ‘sti gnocchi va».
Il tasto «pensione» è dolente. E toccarlo significa togliere il sorriso all’uomo che ha fatto del divertimento il suo stile di vita. Quasi un peccato di lesa maestà per José João Altafini da Piracicaba che il prossimo 24 luglio compirà 80 anni. Ottanta intensi, variegati, veloci anni, divisi grossomodo così: sette d’infanzia a piedi scalzi per le strade polverose della città, l’angolo di Brasile dove pulsa più forte il cuore italiano; nove fra scuola e lavoretti da garzone, «sempre a piedi scalzi»; venticinque da centravanti proiettato come un missile nello spazio riservato alle stelle del calcio, dove ha toccato a soli vent’anni la vetta più alta: Svezia ‘58, campionato del mondo vinto con la nazionale carioca accanto a un ragazzo chiamato Pelè. Fantasia, astuzia e golassi. Che poi ha trasferito, nella sua penultima esistenza, davanti ai microfoni sportivi di radio e tivù. Penultima perché l’ultima è qui, di nuovo sulla terra, come in certe parabole umane.
«... io non ho la pensione da calciatore, non sono riuscito a farla. Ho versato solo tre anni di contributi. Quando ero andato a chiedere il riscatto mi avevano chiesto 70 milioni di lire di arretrati e ho detto ciao amici».
E quindi niente pensione?
«Ho quella sociale: 700 euro al mese. Diciamo che sono tornato un po’ alle origini. Ma le scarpe ce le ho ancora, eh».
Uno pensa che il campione del mondo Altafini, dopo aver giocato con Milan, Napoli e Juve, e dopo i successi televisivi, non debba fare i conti con la fine del mese...
«Ascoltami, quando un uomo vive senza mai pensare ai soldi, i soldi non li fa. E io ho vissuto così. Non ho mai cercato il denaro. Volevo solo divertirmi, in campo e fuori, senza tanti calcoli. Ho molti difetti ma non sono tirchio e nemmeno invidioso dei miliardari. Tra l’altro, non riesco a chiederli i soldi, non l’ho mai fatto. Anche adesso, faccio fatica a dire quanto voglio di cachet per partecipare a un evento. E così ho un cachet bassissimo».
Com’era lo stipendio da calciatore?
«Quello più alto lo prendevo alla Juve. L’ultimo anno 67 milioni di lire lorde, 42% di tasse, una casa ne costava 100. In Brasile al Palmeiras erano 400 cruzeiros al mese, circa 100 euro».
Altri tempi...
«I calciatori non facevano i miliardi e nel mio caso ancora meno perché non avevo quel tipo di testa. Per esempio, quando sono andato a Napoli avevo dimezzato la paga per essere libero di andarmene quando volevo. Per me il calcio è poesia, è Pelè, è Messi, è Garrincha, è Zizinho. Poeti. E quando uno è poeta pensa poco al denaro. Se poi è come me, fa anche delle sciocchezze».
Quali?
«Quando sono venuto in Italia a vent’anni chiamato dal Milan, mio zio Angelo e io abbiamo commesso un errore grandissimo: contratto in cruzeiros brasiliani. Una moneta che in quegli anni si è svalutata tantissimo e così io guadagnavo sempre meno».
Insomma, Altafini, è costretto a correre più di prima?
«Diciamo che devo lavorare per vivere ma sono contento. Ho solo qualche problemino con il Fisco, come tanti italiani».
Cioè?
«Lasciamo perdere».
Però l’umore sembra alto, o no?
«Io ho un angelo custode, uno spirito guida che mi protegge. Non scherzo... È sempre stato così, fin da piccolo. Mi ha salvato un sacco di volte. Lui mi sveglia tutte le mattine, perché quando dormiamo siamo come morti, e io lo ringrazio».
Spiritismo?
«Sono cattolico ma credo anche nello spiritismo. In Brasile c’è questo sincretismo. Credo nello spirito guida e nei medium».
Ottant’anni, tempo di bilanci...
«Per prima cosa saranno 80 il 24 luglio. E poi io non me ne rendo conto, anzi, me ne sento 40. Non fumo, non bevo, non ho brutti vizi. Prendo ogni tanto un Gratta e vinci, faccio una puntatina a Dieci e lotto. Le emozioni della vita sono amore e gioco».
Donne?
«Non mi guardano più».
È stata la vita che voleva?
«Sì, una vita bellissima, tutto quello che sognavo mi è capitato. Ho sposato la donna che amavo e fatto il lavoro che desideravo. Anzi, sono andato oltre perché io sognavo di giocare con il Piracicaba in serie A. Mi sembrava tutto facile, tutto regalato. E non stavo tanto lì a guardare orari e diete come fanno adesso. Io ingrassavo ma mi divertivo, soprattutto al Napoli quando lo allenava Pesaola. Con lui in campo si entrava e si usciva ridendo. “E non rientrare prima delle tre di notte”, diceva. Non mi sono mai piaciuti quelli che ti stanno col fiato sul collo. Tipo Conte adesso, io scapperei».
Mai preso pilloline?
«Come no. Prima dell’antidoping le squadre davano le pastigliette. Roba leggera però, tipo quelle per stare svegli e aumentare le prestazioni. Come prendere 5 o 6 caffè».
La tivù ha deciso di metterla in panchina. Come mai?
«Eh! Sono arrivati in Sky dei personaggi che mi facevano la guerra per prendere il mio posto e io ho detto tanti saluti, amici. In Italia a volte viene premiata la raccomandazione e non la competenza. Mettono i giovani che urlano senza fantasia. Quando li sento abbasso il volume. Io ho inventato il manuale del calcio, il golasso...».
La gioia, il dolore e il rimpianto più grandi della sua vita?
«Gioie tante, non saprei. Il dolore quando è morto il mio cane 2-3 anni fa. Una tristezza incredibile... Rimpianto, il soprannome: Mazola; era meglio Zezo, come mi chiamava mia mamma, così evitavo confusioni con Mazzola».
Sua moglie Annamaria era sposata con Barison, compagno di squadra. Un po’ come Icardi con Wanda Nara...
«Questa storia di Barison la devo raccontare bene una volta per tutte. Eravamo compagni di squadra e amici al Milan e poi al Napoli. Quando è scoccata la scintilla, i nostri matrimoni, che già traballavano all’epoca del Milan, erano praticamente finiti. Con Anna comunque siamo ancora insieme. Voglio dire, è stata una cosa seria, non un tradimento. Come Icardi, lui l’ha sposata e hanno pure dei figli, cavolo».
Se non avesse avuto i piedi buoni cosa avrebbe fatto?
«Forse il meccanico. Quando ho iniziato a giocare con il Club Atletico Piracicaba stavo ancora studiando in una scuola di avviamento professionale. Odiavo la scuola. Ma mio papà Gioacchino non voleva che giocassi a pallone. Però devo dire che poi ha cambiato idea».
Quando?
«Quando ho avuto un po’ di soldi, a 18 anni, e ho comprato una casa dove ho fatto entrare anche lui e mia mamma».
Torna mai in Brasile?
«Sì, ho lì due figlie e sei nipoti. L’ultima volta che sono andato ho organizzato anche una rimpatriata di vecchi amici. Non lo farò mai più. Una tristezza, una cosa incredibile: uno senza denti, un altro storto, non riuscivano a parlare... Ho detto basta, chiuso».
Chi vince il Mondiale?
«Brasile o Spagna, io tifo per loro, visto che manca l’Italia».
Ma si sente più italiano o brasiliano?
«Le mie origini sono italiane. Mio nonno era di Giacciano, Rovigo. Mia nonna di Caldonazzo, Trento. Quando non ci sarò più voglio le mie ceneri sul Po, così arrivano in Polesine e io torno da dove sono venuto, alle mie radici». 
Arriva Tonetto. «Fermati Flavio, gli sto dicendo delle ceneri, le devi buttare tu, lo sai? Tu butti le ceneri e lui fa il coccodrillo». E ride.