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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Le nuove vacanze: sull’Everest in tre settimane

Salire e scendere gli 8.848 metri dell’Everest in meno di tre settimane? Oggi si può con programmi d’allenamento mirati prima della partenza e soprattutto dormendo nel letto di casa avvolti da teli completamente stagni, dove viene ridotto l’ossigeno a simulare le condizioni dell’alta quota e costringere il corpo a produrre i globuli rossi necessari per farvi fronte. Ma per Edmund Hillary e Tenzing Norgay, al tempo della loro «prima» nel 1953, sarebbe apparsa una follia suicida anche solo pensarlo. Impiegarono ben oltre dieci settimane per arrivare in cima da Kathmandu, più altre tre o quattro per tornare. E in tutti questi anni le migliaia e migliaia tra alpinisti e sherpa – circa 8.500 sono arrivati in cima dal 1921, data del primo serio tentativo – che si sono cimentati sui suoi ghiacciai hanno trascorso gran parte dell’ascensione (servono tra i 40 e i 60 giorni) ad acclimatarsi per evitare il classico «mal di montagna», che in termini più scientifici è l’edema polmonare o cerebrale.
Raggiungi a 5.300 metri di quota il gigantesco campo base costellato di tende sul lato nepalese, che in questo periodo precedente il monsone è particolarmente affollato, e rimani impressionato dalle lunghe carovane che salgono e scendono lungo le corde fisse della «cascata di ghiaccio» iniziale. «L’acclimatamento prevede veloci salite ai campi alti, una notte verso i 6.500 metri, e poi periodi in basso», si legge su manuali e programmi distribuiti dalle spedizioni commerciali, che con una spesa media compresa tra i 50.000 e 70.000 dollari promettono di arrivare in cima con tanto di permesso governativo, tende attrezzate sino ai 7.910 metri del Colle Sud, bombole d’ossigeno e sherpa-portatori. Il fine è ovvio: occorre che il corpo si abitui all’altitudine. In cima c’è solo il 36 per cento dell’ossigeno che si trova al livello del mare. Il corpo non acclimatato rischia di soffocare nei propri liquidi, che invadono i polmoni, gonfiano e uccidono il cervello. L’edema è stato tra le cause principali dei quasi 300 morti in circa un secolo e delle fughe verso valle per chi ha avuto la lucidità di diagnosticarlo in tempo.
La soluzione al peripatetico peregrinare prima dell’attacco finale da parte dei sempre più numerosi aspiranti al tetto del mondo viene ora offerta dalle spedizioni commerciali più agguerrite. Dopo i 15 morti nella stagione disastrosa del 1996, ben raccontata dallo scrittore americano Jon Krakauer e da almeno due film, vi fu una profonda crisi nel mercato dell’Everest a pagamento. Ma oggi è in crescita. Oltretutto il terremoto del 2015 ha appianato le rocce dello Hillary Step, che era uno degli ultimi ostacoli prima della vetta. Diverse compagnie internazionali offrono pacchetti sempre più sofisticati. Come l’austriaca «Furtenbach Adventures» che per 110.000 dollari a testa ha elaborato il programma Flash. La cima in velocità, dove nelle sei settimane precedenti il volo alla volta del Nepal il cliente dovrà dormire nella «tenda di simulazione dell’altezza» e sottoporsi a esami medici per verificare che il suo sangue stia realmente «attrezzandosi». Così l’ascensione si dipana senza interruzioni e discese intermedie. «Nel 1953 la spedizione di Hillary durò cinque mesi, la nostra 28 giorni riducibili a 23», hanno spiegato i manager austriaci al Financial Times. 
Ma l’Everest de luxe offre mille variazioni. La russa «7 Summit Club» per «soli» 80.000 dollari propone tende riscaldate, uno chef al campo base e un massaggiatore. La nepalese «Seven Summit Treck» per 130.000 dollari garantisce un servizio di elicotteri per interrompere l’ascensione con serate negli hotel a 5 stelle di Kathmandu. La logica dell’offerta segue la domanda. Gli imprenditori hanno capito che per molti dei loro clienti il tempo vale più del denaro e l’aspirazione all’Everest non rappresenta il culmine di una carriera alpinistica, che talvolta non esiste affatto. Agli sherpa è capitato di scoprire che i loro clienti non sapevano come usare la corda e neppure calzare i ramponi.