La Stampa, 21 maggio 2018
Il problema della Francia
Prima ancora di esistere il nuovo ministro degli Esteri sa già quale sarà il problema più immediato che lo attende: i rapporti con Parigi. Non l’unico, ma il più contorto. Con nessun’altra capitale europea c’è un simile intreccio d’interdipendenze e concorrenza. A Roma non c’è ancora un governo, ma a Parigi il programma giallo-verde ha fatto subito scattare un campanello d’allarme e un riflesso condizionato. L’uno: con la stabilità dell’euro non si scherza; l’altro: approfittare dello spazio in Libia e nel Mediterraneo. Parigi e Roma hanno interessi convergenti in tema di rafforzamento e gestione dell’Eurozona, basti pensare alla ricerca di formule di mutualizzazione del debito. Per superare la rigida ortodossia di Berlino e dei nordici, la Francia di Macron ha bisogno dell’Italia – ma non di un’Italia eversiva che indulge a fantasie di tagli di 250 miliardi di debito e di valute parallele. Non di un’Italia prima sì, poi non so sulla Tav.
Il ministro dell’Economia, Le Maire, è uno che non ha peli sulla lingua. «Vogliamo essere vassalli degli Stati Uniti?» ha detto dopo che Trump aveva annunciato il ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran. Ieri è toccato all’Italia: che rispetti gli impegni e non metta a rischio la stabilità finanziaria dell’euro; il suo futuro è in Europa. Parole pesanti, ma prima di gridare all’ingerenza, i nostri futuri governanti hanno l’onere di dire quale sia l’alternativa all’Ue – e, per favore, non «un’altra Europa», dire dove e con chi a Est, o a Sud o a Nord.
Mentre l’Italia continua a interrogarsi su chi sarà il leader del futuro governo, quasi fosse l’amletico dubbio inglese su chi avrebbe accompagnato Meghan Markle all’altare di Saint George’s Chapel, la Francia non perde tempo. I francesi procedono come un treno nella revisione del Trattato dell’Eliseo con la Germania, nel posizionarsi come anello militare di congiunzione fra Regno Unito e difesa europea e nell’occupazione degli spazi vuoti in Mediterraneo e Nord Africa. Un anno fa si era risolto nel nulla il tentativo di Macron di mediare la pace libica fra Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar. Riavvolto il tappeto rosso a Parigi, Roma e la nostra ambasciata a Tripoli erano tornate ad essere il principale punto di riferimento dei due leader e delle varie realtà tribali – i risultati si sono visti nel contenimento dell’immigrazione. Adesso Macron spinge di nuovo Haftar e al-Sarraj ad incontrarsi sotto l’egida francese, senza presenza italiana. A fronte di quest’attivismo i due devono pensare al futuro ed è un futuro in cui il ruolo dell’Italia in Libia è avvolto nei fumi di un programma, che restringe la politica mediterranea al contrasto al terrorismo e immigrazione e svaluta il ruolo delle missioni militari. Parigi coglie la palla al balzo. C’è da stupirsi se al-Sarraj e Haftar accettano l’invito? Il nuovo governo italiano può rispondere in due modi: rinnovando l’impegno in Libia e mettendo con fermezza i paletti con Parigi; oppure esordendo con una generica impennata anti-gallica. Quest’ultima sarebbe un errore.
Tra Francia e Italia esistono obiettivi motivi di frizione, come l’immigrazione. La fisiologica concorrenza è gestibile dentro un’Ue di cui siamo entrambi partner con obiettivi e sensibilità comuni. Anche questo ci ha ricordato ieri Le Maire. Il messaggio, brutale, è solo più esplicito della preoccupazione nella mente dei nostri partner dalla Slovacchia al Portogallo: quella di «perdere» l’Italia. Ma se l’Italia perde l’Europa, quo vadis?