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 2018  aprile 23 Lunedì calendario

I rischi della globalizzazione

Se qualcosa hanno insegnato gli ultimi dieci anni, è che gli investitori non sono esseri perfettamente razionali. A volte accettano e sostengono prezzi che hanno molto a che fare con illusioni e pregiudizi e poco con una valutazione realistica delle prospettive di guadagno di un’impresa. Questo però non significa che chi compra o vende a una certa valutazione agisca sempre senza una logica che riflette aspettative ben precise su una data impresa e sulle trasformazioni in corso nella società e nel mondo del lavoro. 
Di questi tempi lo si nota nei prezzi delle grandi aziende digitali americane. Di recente è diventato di moda attaccare Facebook, ma un’occhiata ai titoli delle Big Tech, ai loro utili e al fatturato suggerisce qualcos’altro: il social network fondato da Mark Zuckerberg è ben lontano dall’essere il principale sospettato di una futura destabilizzazione nel bene o nel male dell’ordine costituito. Non lo è neppure Google. Il ruolo del «disrupter», il sovvertitore dell’economia reale e del mondo del lavoro spetta piuttosto a altri tre nomi: Spotify, Netflix e Amazon. Questo almeno dicono gli investitori, quando si mettono a confronto le valutazioni di mercato con i bilanci delle imprese del Big Tech nel 2017. A Amazon, Netflix e Spotify gli investitori attribuiscono un futuro potere di mercato quasi senza limiti. E il mercato non sempre vede giusto, ma anche se avesse anche solo una piccola parte di ragione le conseguenze sarebbero importanti. L’impatto sul mondo del lavoro, sulle sue modalità e sui costumi sociali sarebbe profondissimo. 
Le grandi del Big Tech si dividono infatti essenzialmente in due gruppi. Il primo è composto da quelle il cui prezzo appare razionale in base ai criteri che conosciamo da sempre. Fanno parte di questa categoria Facebook e Google, con utili netti complessivi per 28 miliardi di dollari l’anno scorso. Valgono moltissimo in Borsa (oltre 1.200 miliardi di dollari, sommate insieme) ma il loro valore riflette una redditività enorme. E ciò è particolarmente vero proprio di Facebook: la sua capitalizzazione è pari a circa 30 volte gli utili netti dell’anno scorso, un multiplo elevato ma non assurdo. Amazon, Netflix e Spotify invece fanno parte di una categoria a sé, completamente diversa. Prendiamo per esempio Spotify, il gruppo che offre servizi di musica in streaming. Il suo fatturato l’anno scorso è salito da poco meno di tre a oltre quattro miliardi, ma deve ancora iniziare a guadagnare un solo centesimo: negli ultimi cinque anni ha già bruciato cassa per oltre due miliardi di dollari e le perdite sono più profonde. Eppure dopo il suo debutto in Borsa il 7 aprile oggi Spotify vale in Borsa 28 miliardi di dollari, una capitalizzazione degna di un colosso dei computer come Hewlett Packard. Forse è una bolla, forse però il mercato sta cercando di anticipare il potenziale sovversivo che attribuisce a Spotify (che pure ha concorrenti come Google o Apple Music). Qualcosa del genere dev’essere vero anche di Amazon e Netflix nei rispettivi settori, la vendita in rete con distribuzione a domicilio di prodotti al dettaglio e la produzione e vendita di contenuti televisivi online. Valutate in base ai multipli che il mercato applica a Facebook (in rapporto agli utili del 2017), Amazon dovrebbe valere in Borsa 90 miliardi. Invece ne vale 739. Quanto a Netflix, dovrebbe valere 17 miliardi e invece ne vale 145. 
Si può spingere l’analisi anche un po’ più in là. Immaginiamo che Amazon, Netflix e Spotify siano un’unica grande azienda del Big Tech. Questo ipotetico grande gruppo nel 2017 avrebbe guadagnato appena 2,3 miliardi di dollari (malgrado vendite da quasi 200 miliardi), con un utile che sta crescendo a ritmo dimezzato rispetto al fatturato. Se a questo ircocervo Amazon-Netflix-Spotify si applicassero i multipli di Facebook, varrebbe in Borsa meno di 70 miliardi di dollari. Invece la sua capitalizzazione è di 912 miliardi. Nel 2017 l’utile netto di Amazon-Netflix-Spotify è salito solo di 340 milioni, mentre il valore di Borsa è esploso di quasi 400 miliardi. 
In altri termini, gli investitori trattano queste tre grandi imprese come se fossero destinate a produrre utili colossali che oggi non si vedono. Forse sono impazziti. Forse però puntano su qualcosa di diverso: un’evoluzione a due stadi del mercato dei beni e servizi ai quali, nota l’analista e presidente di Gea Luigi Consiglio, i consumatori dei ceti medi oggi aspirano senza riuscire a trovare soddisfazione nei canali di vendita tradizionali. Il primo stadio è quello che stiamo vivendo adesso: gruppi come Amazon o Netflix guadagnano quote di mercato sempre più vaste, anche a costo di accettare una redditività bassissima o inesistente (GeekWire, una rivista online, stima che Amazon perda circa 7 miliardi l’anno sui puri costi di spedizione). Solo dopo alzeranno i prezzi, quando avranno spiazzato e magari spazzato via una quota sufficiente di concorrenti tradizionali. Le implicazioni sull’industria audiovisiva esistente e sul mondo della distribuzione tradizionale («addormentato da 30 anni», dice Consiglio) possono essere drammatiche. Nel frattempo la Borsa valuta questa famiglia di imprese del Big Tech sui loro fatturati, non sugli utili, perché vede nei primi una misura della loro posizione dominante futura e della loro possibilità di utilizzarla a proprio vantaggio. Significa che gli operatori tradizionali devono rispondere accettando la sfida dell’innovazione, per evitare la distruzione di una quantità enorme di posti di lavoro. E i regolatori, quanto a loro, devono vigilare.