Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 24 Martedì calendario

Il delitto di Rina Fort

Salve a tutti. Sono venuto a conoscenza casualmente e saltellando su internet, della storia che riporto di seguito. La mia domanda ( che rimarrà senza risposta ) è: ma il Male, non si stanca mai? ( le foto dettagliate del caso, che non sono riuscito a prendere, si trovano al seguente sito: l’unità.it-cronaca )

Rina fort, la belva di via san Gregorio: un’archetipo del Male
Caterina Fort, detta Rina (Budoia, 1915 – Firenze, 2 marzo 1988), è stata una criminale italiana, protagonista di un celebre delitto dell’Italia del secondo dopoguerra. Giudicata colpevole di omicidio per l’uccisione, avvenuta il 29 novembre 1946, della moglie e dei figli del suo amante, il siciliano Giuseppe Ricciardi, nella loro casa di via San Gregorio 40 a Milano, venne condannata all’ergastolo.
Rimase in carcere fino alla grazia del Presidente della Repubblica nel 1975. I giornali dell’epoca la soprannominarono “la Belva di via San Gregorio”.
Le sue vittime furono: Franca Pappalardo in Ricciardi di 40 anni, Giovanni Ricciardi detto Giovannino di 7 anni, Giuseppina Ricciardi detta Pinuccia di 5 anni, Antonio Ricciardi detto Antoniuccio di 10 mesi.
La vita della Fort
La Fort ebbe una vita travagliata, costellata da lutti e tragedie: il padre morì durante un’escursione in montagna per aiutarla a superare un passaggio difficile; il suo fidanzato morì di tubercolosi poco prima del matrimonio, poi la giovane si scoprì affetta da una precoce sterilità. A 22 anni si sposò con un compaesano, Giuseppe Benedet, che già il giorno delle nozze diede segni di squilibrio destinati a degenerare in pazzia pura, al punto di dover essere ricoverato in manicomio. Ottenuta la separazione (una mossa, per quegli anni, a dir poco coraggiosa) e ripreso il cognome da nubile, la Fort si trasferì a Milano presso la sorella. Nel 1945 conobbe Giuseppe Ricciardi, un siciliano proprietario di un negozio di tessuti in via Tenca, divenendone prima compagna di lavoro, come commessa, poi amante, senza tuttavia essere a conoscenza – così dichiarò – del fatto che fosse già sposato.
Giuseppe aveva moglie e tre figli a Catania, ma la sua storia con la Fort proseguì tranquillamente fino all’ottobre del 1946, quando la moglie Franca ed i bambini decisero di trasferirsi a vivere insieme al marito a Milano, dopo che la donna aveva sentito voci preoccupanti da amici di famiglia sulla relazione del marito con la Fort, che pare avesse l’abitudine di presentare come la propria moglie a colleghi e amici.
Rina venne licenziata e andò a fare la commessa nella pasticceria di un amico, continuando a vedere Giuseppe. Ma dopo l’arrivo della moglie e dei bambini di Giuseppe, la loro relazione era ormai compromessa, tanto più che la moglie di Giuseppe aveva fatto chiaramente capire alla Fort che doveva definitivamente rinunciare al suo uomo (pare che la donna le avesse rivelato di essere incinta per la quarta volta, suscitando frustrazione nella rivale).
Il 29 novembre 1946 Rina Fort si vendicò sulla la moglie del suo amante e sui suoi tre bambini.
Il massacro di via San Gregorio del 29 novembre 1946Ecco il massacro nelle parole della Fort nella sua unica dettagliata confessione, nella Questura di Milano 24 ore dopo l’omicidio:
«Quella sera vagavo senza meta quando, all’altezza di via Tenca, automaticamente voltai a destra ed entrai nello stabile numero 40 di via San Gregorio, attraversai l’interno dell’andito, salii al primo piano e bussai alla porta d’ingresso della famiglia Ricciardi. La signora chiese chi fosse, poi aprì la porta. Entrai porgendole la mano ed ella mi salutò cordialmente. Ricordo che reggeva in braccio il piccolo Antoniuccio. Mi introdusse in cucina facendomi sedere, mentre gli altri due bambini giocavano fra loro. Appena seduta avvertii un lieve malessere, tanto che la signora Pappalardo mi diede un bicchiere con acqua e limone. Quindi ella volle chiarire la stranezza della mia visita: “Cara signora” disse “lei si deve metter l’animo in pace e non portarmi via Pippo, che ha una famiglia con bambini. La cosa deve assolutamente finire, perché sono cara e buona, ma se lei mi fa girare la testa finirò per mandarla al suo paese”. Preciso che prima di porgermi il bicchiere la signora depose il bambino sul seggiolone e dopo aver parlato mi portò dalla cucina una bottiglia di liquore allo scopo di offrirmi da bere. Quindi ritornò nella camera da pranzo per prendere un cavatappi, non avendolo trovato in cucina. A questo punto, mentre la Pappalardo era nella stanza da pranzo, ruppi il collo della bottiglia di liquore e ne versai in abbondanza. Accecata dalla gelosia dalle parole poco prima rivoltemi dalla Pappalardo, oltre che eccitata dal liquore, mi alzai andandole incontro. Giunta nell’anticamera l’incontrai mentre tentava di venire in cucina. Alla mia vista essa si spaventò, indietreggiando, mi avventai sopra di lei e la colpii ripetutamente alla testa con un ferro che avevo preso in cucina e di cui non sono in grado di precisare le dimensioni. La Pappalardo cadde tramortita sul pavimento, io continuai a colpirla. Il piccolo Giovannino, mentre colpivo la madre, si era lanciato in difesa di lei afferrandomi le gambe. Con uno scrollone lo scaraventai nell’angolo destro dell’anticamera e alzai il ferro su di lui: alcuni colpi andarono a vuoto e colpirono il muro, altri lo raggiunsero al capo. Preciso di aver abbatutto prima Giovannino; poi entrata in cucina, colpii la Pinuccia; ad Antoniuccio, seduto sul seggiolone, infersi un solo colpo, in testa. Frattanto Giovannino si era alzato dall’angolo dove giaceva, per cui calai su di lui altri colpi, facendolo stramazzare al suolo esanime con la testa presso la porta della cucina. La Pinuccia, colpita in cucina, era caduta riversa accanto al tavolo. Terrorizzata dal macabro spettacolo, scesi le scale e mi portai davanti alla porta del retrostante negozio, subito a destra della scala. Dall’interno il cane abbaiava rabbiosamente. Avrei voluto tornare sul luogo dell’eccidio, ma sbagliai strada e mi ritrovai sui gradini che portano alla cantina. Rimasi seduta sul primo gradino pochi attimi per riprendere fiato, poi risalii le scale dell’appartamento, nel quale le luci erano accese come le avevo lasciate. La signora Pappalardo e i suoi tre figli non avevano esalato l’ultimo respiro. Entrai nella camera da letto, mi tolsi le scarpe e ne calzai un paio del Ricciardi, quelle dalle sette suole. Sulle spalle, sopra il cappotto, mi gettai una giacca, poi aprii diversi cassetti asportando una somma imprecisata di denaro e alcuni gioielli d’oro. Misi a soqquadro la casa intera, non so a quale scopo. Non era ancora morto nessuno: il piccolo respirava, la signora si dimenava, la Pinuccia rantolava. La Pappalardo fissandomi con occhi sabbrati diceva sommensamente: “Disgraziata! Disgraziata! Ti perdono perché Giuseppe ti vuol tanto bene.” Poi soggiunse “Ti raccomando i bambini, i bambini...”. Mi chiese aiuto la signora, mentre continuava a dimenarsi. Singhiozzava, poi si mise bocconi. Mi diressi verso la camera da letto e passai su di lei con tutto il peso del mio corpo. Essa non parlava più, ma respirava ancora. Senza rendermi conto di ciò che facevo, rovesciai sul viso delle vittime un liquido, e prima di allontanarmi definitivamente ficcai loro in bocca dei pannolini imbevuti dello stesso liquido. Rimisi quindi le scarpe nel comodino e la giacca al posto in cui l’avevo trovata. Le vittime agonizzavano ancora quando accostai la porta e discesi le scale. Andai a casa, mangiai due uova fritte con grissini. La notte non potei dormire. Il giorno seguente mi recai normalmente al lavoro...»

Le indagini
Il fatto venne scoperto la mattina dopo, dalla nuova commessa del marito, tal Pina Somaschini, che s’era recata in Via San Gregorio per farsi dare dalla signora Pappalardo le chiavi del negozio. Le vittime giacevano riverse in una pozza di sangue, materia cerebrale e tracce di vomito: la signora Pappalardo ed il figlio maggiore nell’ingresso dell’appartamento, i due bambini più piccoli in cucina. Il portiere dello stabile disse di aver chiuso come tutte le sere il cancello alle 21 in punto, ma mancava la serratura che era in riparazione, quindi chiunque avrebbe potuto entrare senza problemi. Il verbale del primo sopralluogo redatto dalla Polizia parla con queste parole della scena del delitto:
«Con sala da pranzo di circa 3 metri x 3 e mezzo, con divano con due cuscini e una penna stilografica appoggiata; letto matrimoniale in stato di non uso per la notte precedente; al muro immagine di Santa Rosalia, e statuetta della Madonna con lampadina.»

L’omicida di certo era un conoscente della Pappalardo, che infatti gli aveva offerto anche un liquore, anche se gli assassini potevano essere due dato che i bicchierini sporchi – su uno dei quali furono rinvenute tracce di rossetto – erano in totale tre. Pare mancassero alcuni pezzi d’argenteria di modesto valore, quasi certamente sottratti per simulare maldestramente una rapina degenerata in omicidio.
Gli inquirenti scartarono quasi subito l’ipotesi del furto: la famiglia versava in condizioni economiche quantomeno precarie ed il negozio di Ricciardi – soprattutto dopo il licenziamento della Fort che pare avesse una certa capacità negli affari – sempre ad un passo dalla chiusura, con numerose cambiali in protesto. Quello di Via S. Gregorio pareva sicuramente un delitto a sfondo passionale dato che furono uccisi dei bambini che non avrebbero nemmeno potuto testimoniare. La donna aveva lottato prima di essere uccisa e fu trovata tra le sue unghie dei capelli femminili. Inoltre sulla scena del delitto venne trovata una fotografia, stracciata, ritraente i coniugi Ricciardi il giorno delle nozze.
Il Ricciardi si trovava a Prato per ragioni di lavoro; rintracciato e informato dell’accaduto venne interrogato e fece il nome di Rina Fort, sua commessa e amante dal settembre del 1945. La Polizia la cercò a casa sua in via Mauro Macchi 89, poi nella pasticceria dove lavorava in via Settala 43. Rina fu arrestata mentre serviva i clienti scherzando e raccontando aneddoti, e trasportata in questura.
L’interrogatorio cominciò il 30 novembre 1946 nel pomeriggio, a meno di 24 ore dal pluriomicidio. La Fort ammise di aver lavorato per il Ricciardi, ma negò di essere la sua amante e non sapeva dove si trovasse. Dell’omicidio inizialmente negò tutto, poi il 2 dicembre venne portata sul luogo dell’accaduto dove si mostrò indifferente. Riaccompagnata in questura, incominciò a raccontare, dopo 17 ore di interrogatorio al commissario dott. Di Serafino. La Fort ammise tranquillamente di esser stata l’amante del Ricciardi (del quale addirittura portava al dito la fede nuziale), ma quando era tornata la moglie da Catania tutto era finito. Inoltre disse al suo avvocato difensore che durante l’interrogatorio era stata malmenata e presa a manganellate. In seguito sostenne di aver partecipato all’eccidio ma di non aver toccato i bambini, ed accusò il Ricciardi di essere stato il mandante del delitto, assieme ad un tal “Carmelo”. Aggiunse che, nelle intenzioni dell’ex amante, lei e “Carmelo” avrebbero dovuto semplicemente inscenare un furto per convincere la Pappalardo che la vita a Milano era troppo pericolosa e spingerla a tornare a Catania ma che, una volta giunta in Via San Gregorio, la situazione sarebbe precipitata anche a causa di una “sigaretta drogata” che il misterioso “Carmelo” le aveva offerto poco prima.
Il processo
«E voi parlatene pure, se vi interessa tanto, leggete i resoconti, contemplate le fotografie, andate pure, se non potete farne a meno, alla Corte d’Assise, discutetene alla sera. Però vi resti fitto nel cuore il ricordo di quei tre bimbi selvaggiamente uccisi, di quei tre faccini rimasti là, immobili per sempre, con l’espressione stupefatta, di quel seggiolone da lattante da cui colò il tenero sangue. Le anime dei tre innocenti sovrastano, con pallida e dolorosa luce, la folla riunita al tribunale; e può darsi che vi guardino.»
(Dino Buzzati, Cronache nere).
Il 10 gennaio 1950 nella Corte d’Assise di Milano incominciò il processo contro la Fort, che fu accusata di strage. La donna, che venne difesa dall’avvocato Antonio Marsico, presenziò a tutte le udienze sfoggiando una vistosa sciarpa gialla che le valse il soprannome di “Belva con la sciarpa color canarino”. Tra un’udienza e l’altra, la donna rilasciò diverse interviste, dipingendosi assolutamente estranea a fatti tanto efferati, dichiarando ad una cronista:"Lei crede che io sia così tranquilla se avessi sulla coscienza quei bambini?”.
Al processo tuttavia non riconobbe neanche lo Zampulla, da lei inizialmente additato come il famoso “Carmelo” suo presunto complice. Il Ricciardi non cambiò il suo alibi e continuò a sostenere che era andato a Prato per questioni di lavoro e negando con toni accorati di aver mai preso parte a qualunque progetto omicida nei confronti della propria famiglia. La sua figura non apparve certo limpida alla Corte, posto che, arrivato sulla scena del delitto, il Ricciardi parve più preoccupato di capire quali e quanti preziosi fossero spariti che non di aver perso i propri cari. Inoltre, quando a sua volta fu portato in Questura, Ricciardi si precipitò, singhiozzando, tra le braccia della Fort gridando “Rina mia!” malgrado la polizia l’avesse già avvisato che era proprio lei la principale indiziata. L’uomo inoltre si costituì parte civile contro la sua ex amante, scelta quantomeno discutibile, che gli valse anche una severa reprimenda da parte del difensore del cognato di lui, a sua volta costituitosi parte civile, che oltretutto, durante il processo, lo accusò di essere stato un pessimo marito e padre e di aver maltrattato la moglie. Nel frattempo, la Fort era stata tradotta dal San Vittore al carcere di Perugia.
Quando – come di rito – al termine del dibattimento le fu data l’ultima parola, la Fort se ne uscì con una sorta di amaro, spregiudicato proclama:
«Potrei dire che non ho paura della sentenza. Faranno i giudici. Mi diano cinque anni o l’ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort!»

Il 9 aprile 1952 fu condannata all’ergastolo, mentre lo Zampulla e il Ricciardi furono prosciolti da ogni accusa. La Fort scontò la pena nel carcere di Perugia, dove rifiutò sempre di considerarsi l’unica colpevole dell’omicidio, come ad esempio in una lettera inviata al suo avvocato:
«Non è la quantità della pena che mi spaventa. C’è una parte del delitto che non ho commesso e non voglio»

Il processo, a causa dell’efferatezza del delitto, ebbe un seguito di pubblico molto grande; tra i cronisti di cronaca nera che seguirono tutto il dibattimento in aula ci fu lo scrittore Dino Buzzati, che scrisse una serie di articoli per la cronaca del Nuovo Corriere della Sera. Fu Gaetano Afeltra ad insistere con il direttore di allora Guglielmo Emanuel perché il processo fosse seguito da Buzzati; e dovette insistere soprattutto con Dino Buzzati che sosteneva di non sentirsela più di fare il cronista.
La pena
Il ricorso alla Corte di Cassazione, preso in esame il 25 novembre 1953 non cambiò nulla nella pena, e l’ergastolo venne riconfermato. Rimase nel carcere di Perugia fino al 1960, quando poi per motivi di salute venne spostata nel carcere di Trani in Puglia, col clima più adatto alle sue condizioni di salute. Venne spostata poi nel Carcere delle Murate a Firenze.
Dopo trent’anni di carcere, avendo chiesto (ed ottenuto) il perdono della famiglia Pappalardo, il 12 settembre 1975 fu beneficiata della Grazia dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nello stesso anno moriva Giuseppe Ricciardi, il suo ex amante, che nel frattempo s’era risposato ed aveva avuto un altro figlio.
Dal 1975 prenderà il cognome Benedet dell’ex marito Giuseppe, e vivrà una vita in disparte a Firenze, presso una famiglia che l’aveva accolta dopo la scarcerazione, facendosi anche chiamare Rina Furlan, fino alla morte a causa di infarto, il 2 marzo 1988, quando venne ritrovata alle nove del mattino.
I dubbi del caso
Il movente era passionale, ma il problema era l’uomo sconosciuto che forse era in casa ad aiutare a uccidere i figli e la moglie del Ricciardi, dove non si investigò mai, rimane un forte dubbio anche sul coinvolgimento del Ricciardi che non è certo se fu il mandante e lo Zampulla, che però non venne riconosciuto dalla Fort.
Inoltre nella casa c’erano tre bicchieri dove era stato messo il liquore e non due (la Fort e la Ricciardi), chi era la terza persona? La Fort fu l’unica a scontare la pena mentre altre persone coinvolte non la scontarono mai? Il bicchiere in più fu aggiunto dalla Fort per sviare le indagini? Poteva una donna da sola uccidere con quella violenza? La famosa sigaretta “drogata” fu un’invenzione della Fort oppure la donna era in stato di trance durante l’omicidio?
I dubbi rimangono e probabilmente non saranno mai svelati, anche perché i rilievi degli inquirenti sulla scena del delitto presentarono numerose lacune.
L’unica cosa che rimane certa è che il 29 novembre 1946 vennero uccisi barbaramente una donna e i suoi tre bambini.

Rina Fort
Immagine:
5,61 KB

Rina Fort
Immagine:
4,45 KB

Vittime e carnefici
Immagine:
5,67 KB

Giuseppe Ricciardi
Immagine:
10 KB

2   U L T I M E    R I S P O S T E    (in alto le più recenti) Verna Inserito il - 27 mag 2011 : 23:16:24 Grande Azrael... Azrael Inserito il - 26 mag 2011 : 22:56:50 La scena del crimine
Contiene un immagine non adatta ad un pubblico impressionabile e/o minore.
Caterina Fort, nata a Santa Lucia di Budoia, in Friuli, il 28 giugno 1915 all’1.30 fonte e copyright: http://www.larottadiulisse.it/zkiller/fort.html da cui si vede anche l’immagine del suo Tema Natale.

Atom: ma il Male, non si stanca mai?
No. Ma neanche il Bene.
Legacy Forum © 2012 Legacy Forum | Forgedy by IlDrago.com Herniasurgery.it | Snitz.it | Snitz Forums 2000