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 2018  marzo 17 Sabato calendario

Jobs Act, scomparsi metà dei contratti scontati

ROMA La metà dei contratti a tempo indeterminato firmati nel 2015 non esiste più. E non si tratta di contratti qualsiasi, visto che hanno usufruito dell’esonero totale triennale – al 100% – dei contributi previdenziali. Sconto che il governo Renzi volle abbinare al Jobs Act. Parliamo dunque di 700 mila lavoratori che in questi tre anni si sono dimessi (60%) o sono stati licenziati (40%), con una proporzione per ora solo ipotizzata. È quanto successo in Veneto, come argomentato dall’Osservatorio Veneto Lavoro. E illustrato in parte a livello nazionale già nel Rapporto Inps del luglio scorso. E che potrebbe alla fine emergere dai dati definitivi di quest’anno.
Quanto questo sia dovuto all’eliminazione dell’articolo 18 è tutto da vedere. Il nuovo contratto a tutele crescenti non contempla più la reintegra in caso di licenziamento illegittimo, ma solo un risarcimento che va dalle 4 alle 24 mensilità, in base all’anzianità. Ma le tutele crescenti sono entrate in vigore il 7 marzo 2015. E i primi dati Inps sulla sopravvivenza dei contratti del 2015 emergono dal confronto tra il gennaio di quell’anno e il gennaio 2018. Al netto dunque dell’articolo 18 cancellato.
Tuttavia se la tendenza fosse confermata nel prosieguo dell’anno, non sarebbe da trascurare. Visto che parliamo di contratti super incentivati e destinati a durare almeno quanto gli sgravi, ovvero 36 mesi. Così non è stato. Perché?
Se ne è parlato al seminario organizzato il 14 marzo dall’Arel, l’agenzia di ricerca fondata da Nino Andreatta, dal titolo inequivocabile: “L’esplosione del lavoro temporaneo”. Le due vicende si legano. La tenuta del lavoro stabile dopo il Jobs Act e gli incentivi, da una parte. E la galoppata dei contratti a termine, dall’altra. Aumentati di 400 mila unità (al netto delle cessazioni) solo negli ultimi due anni, 2 punti percentuali, il 14% dell’occupazione totale italiana, record storico. E in crescita anche nei primi due mesi di quest’anno – altra sorpresa nonostante la reintroduzione degli sgravi per l’assunzione stabile degli under 35.
E se è vero che molti di questi contratti a termine hanno attratti lavoratori ancora meno protetti – voucheristi e collaboratori – è anche vero che la rapida ascesa dei fast jobs (la durata media è 4 mesi) non ha eguali in Europa. E non si riesce a spiegare del tutto, a detta dei partecipanti al seminario – da Tiziano Treu, presidente Cnel, agli economisti Carlo Dell’Aringa, Fedele De Novellis, Marco Leonardi – con una causa sola. La liberalizzazione innescata dal decreto Poletti del 2014, che allungò durata e rinnovi dei contratti a termine.
O la ripresa economica e i suoi effetti in settori ad alto utilizzo di manodopera temporanea: servizi di cura, turismo, cultura.
Un incidente di percorso del Jobs Act? O qualcosa non va?
Secondo il nuovo studio Inps su un campione di 240 mila aziende tra 10 e 20 dipendenti (6 milioni di lavoratori) presentato ieri dal presidente Tito Boeri, autore con Pietro Garibaldi – il Jobs Act funziona.
Le imprese sopra i 15 dipendenti senza più articolo 18 – tra 2013 e 2016 – hanno assunto di più delle imprese piccole (+60%), trasformato di più i contratti a termine in stabili (+100%). Ma anche licenziato di più (+50%).
Non solo. «È aumentato del 20% il numero delle aziende che supera la soglia dei 15 dipendenti», sottolinea Garibaldi, direttore del Collegio Carlo Alberto di Torino. «Come se fosse saltato un tappo. Il mercato del lavoro italiano è diventato più mobile e flessibile». E purtroppo anche più precario.