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 2018  marzo 17 Sabato calendario

Marisela Federici, la contessa racconta gli ospiti di villa La Furibonda. «Chávez? Simpatico e folle. L’esorcista Milingo era un ubriacone»

Vestito nero, calze a rete nere, scarpe nere. Marisela Federici Rivas y Cardona non cammina: volteggia in tacco 12 sui mosaici della sua villa, La Furibonda. Al braccio, una borsetta nera, come se dovesse uscire sull’Appia antica per far visita al sepolcro di Seneca, il dirimpettaio. Indossa il colore del lutto da 521 giorni, dalla morte del marito Paolo Federici, dinastia romana di banchieri e costruttori edili, pupillo di Enrico Cuccia. «Se n’è andato in grazia di Dio, una cosa importantissima, per me. All’estrema unzione ha sollevato una mano per dirmi addio. È stato un dolore più acuto di quello del parto, mai provato prima, neppure quando morirono i miei genitori. Una sola carne che si lacera. Guardi il tuo uomo e ti vedi riflessa in uno specchio, ecco il senso del matrimonio. Sa che cos’è la morte? Un silenzio spaventoso».
L’urna con le ceneri del caro estinto, avvolta da un copripisside, è su un altare domestico, vegliata da un antico crocifisso, da icone mariane e da un lume. «Paolo non ha voluto il funerale, solo una messa in casa: io con i figli, due preti, il notaio, i famigli, Umberto Pizzi e Luciano Di Bacco, i fotografi che ci avevano immortalato tante volte per Dagospia, e il chitarrista Mario Mio. Mi aveva chiesto di cantargli La noche de mi mal. Non so come ci sono riuscita».
Da quel giorno, le feste alla Furibonda si sono rarefatte. «Paolo era malato, sapeva di dover morire. Per cinque anni è stato questo il mio modo di tenerlo allegro: i ricevimenti. Gli altri ci vedevano solo vacuità». Oggi la nobildonna trova conforto in Oracolo manuale e arte di prudenza, libro seicentesco del gesuita Baltasar Gracián che detta 300 norme morali. Il libro è tenuto insieme con lo scotch e zeppo di orecchie alle pagine.
Non la facevo così devota.
«Il mio confessore era San Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. A 13 anni ho anche provato il cilicio».
Non posso crederci.
«Me lo regalò suor Elena, una spagnola. Cara! Un ferro terribile, pieno di aculei. Ce l’ho ancora da qualche parte».
Lei è contessa, giusto?
«Io sono vedova. Me lo vogliono scrivere anche sulla carta d’identità: “vedova Federici”. Il dolore si rinnova».
Il dolore segnò anche la sua infanzia.
«Il padre di mia mamma, Carlos Delgado Chalbaud, che era stato presidente del Venezuela, fu fatto assassinare dal dittatore Marcos Pérez Jiménez. Mi chiamo Marisela come la protagonista del romanzo Doña Bárbara scritto dal loro predecessore Rómulo Gallegos, perché costui era in carica quando mia madre andò a supplicarlo: “Sono incinta, liberi mio marito”. Papà era stato arrestato per motivi politici. Venne rilasciato».
Considera la mondanità un dovere?
«Un gioco. Il salotto serve a far parlare le persone fra di loro. Internet e i cellulari hanno distrutto la conversazione».
Che dote occorre per essere invitati?
«La curiosità. Ecco il mio regalo di Natale, dissi a una cena con 400 persone, ed entrò Emmanuel Milingo, il vescovo esorcista. Aveva cercato di salvare il povero Giovannino Agnelli. Indovinò i malanni di alcuni ospiti. Lo portai in camera a benedire i miei due figli, che dormivano. A Margherita era caduta una spallina del pigiama. Ricordo il suo sguardo lubrico sul seno. Beveva smodatamente, uno spettacolo imbarazzante. Che cialtrone».
I suoi ricevimenti pullulano di prelati.
«Conferiscono un tocco di nobiltà agli eventi. Cardinali e donnine».
Non credo che papa Francesco sarebbe d’accordo.
«Guardi che Paolo studiò nel Collegio Mondragone della Compagnia di Gesù, a Frascati. Sono stata in udienza da Bergoglio con un cesto di rosari. Me li ha benedetti. E io li ho consegnati agli amici durante la “colazione dei rosari”».
Ha aperto le porte di casa anche a Hugo Chávez.
«Simpatico, folle, dotato di un carisma irresistibile. Si credeva il Libertador, la reincarnazione di Simón Bolívar. Venne qui con una decina di ragazze bellissime. La loro età non superava il numero delle bottiglie di champagne che si scolarono. Questo grassone che c’è oggi, Nicolás Maduro, era il suo autista. Un mostro. Ha distrutto il Venezuela. Sono appena tornata da Caracas. Non ci sono più né cibo né medicine. Gli scolari svengono in classe per la fame. Le donne sono tutte incinte perché mancano i condom».
Quanto le costano i suoi buffet?
«Tanta fatica, pochi soldi».
Vabbè, ma il catering...
«Che orrore! Qui non è mai entrato. Facciamo tutto da soli. Siamo attrezzati. Possiamo cucinare per 500 persone».
Mi hanno detto che ha 12 frigoriferi e intere collezioni di Chäteau Margaux.
«Forse sono più di 12. Tutti spenti».
Che cos’è per lei il lusso?
«Il privilegio di saper distinguere il bello dal brutto. Piantare un ulivo qui fuori, quello è un vero lusso».
È molto ricca?
«Sono molto paziente e molto ordinata. Il denaro mi dà angoscia. Ci pensa mio figlio Eduardo, così non mi vengono le rughe».
Ma lei ha mai lavorato?
«Come no! Appena laureata alla Pro Deo, oggi Luiss, ho inventato le pubbliche relazioni per Gianni e Paolo Bulgari. Stavano dietro il banco di via Condotti, perciò nessuno li invitava, erano considerati alla stregua dei bottegai. Con me sono diventati personaggi. Paolo è il padrino di battesimo di mio figlio».
Va dal parrucchiere ogni giorno?
«Siccome detesto i pettegolezzi delle donne sotto il casco, ci sono stata due volte in tutta la mia vita. La prima fu dalle sorelle Rosy e Maria Carita, a Parigi, che inventarono le acconciature di Maria Callas, Farah Diba e Juliette Greco. Da loro ho imparato l’arte dello chignon che oggi mi faccio da sola. Federici ne fu così colpito da inseguirmi fino a Gstaad, dov’ero in vacanza con Alfonso de Borbón, cugino del re di Spagna. Per abbordarmi, Paolo si finse parrucchiere. Devo molto a questa pettinatura, sa?».
In che senso?
«Così esco di casa e così torno».
L’adulterio scompone i capelli?
«Esatto. Lasciai dopo sette anni il mio primo marito, Roger Tamraz, proprio per i suoi frequenti tradimenti. “Ma è come farmi una doccia”, si stupiva delle mie scenate. E io gli rispondevo: falla con me, la doccia, non con le mie amiche».
Perché questa tenuta si chiama La Furibonda?
«Paolo me la comprò, ma io preferivo stare nel centro di Roma, in via 24 Maggio, nel palazzo che fu di Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, dove abitavano Gianni, Umberto e Susanna Agnelli. Da lì si domina il Quirinale. C’erano così tante telecamere che persino Alberto Sordi restò stupito: “Marisela, qua dentro non posso darti nemmeno un bacio”. Vedendo le palme spuntare dal giardino sottostante, un giorno mio figlio Eduardo scrisse in un tema: “Gli alberi crescono dal cielo verso la terra”. Capii che i bambini dovevano vivere a contatto con la natura. Venni qui, spalancai le finestre e avviai i lavori di restauro. Salvo scoprire che la villa era stata progettata da Marcello Piacentini, l’architetto del fascismo, e non si poteva toccare neanche una maniglia. Tornavo in città ogni sera con un diavolo per capello. La governante diceva ai miei figli: “Arriva la mamma, è furibonda”».
Si vocifera che abbia chiesto a Mario Tozzi, commissario per l’Appia antica, di coprire con un cristallo il basolato del 312 avanti Cristo perché mette a dura prova le auto dei suoi ospiti.
«Ho solo mendicato un po’ di manutenzione. La Regina viarum è un disastro, terra di nessuno, casa d’appuntamenti. Sotto i pini si trovano mutande e preservativi. I pochi residenti, Gina Lollobrigida, gli stilisti Valentino e Roberto Capucci, Sandra Verusio, non interessano ai politici. Per arrivare a casa sobbalziamo fra sanpietrini e crepidini».
E come fate a superarli?
«Abbiamo un ottimo rapporto con Riccardo, il gommista del Quarto Miglio».
Non ha paura a star qui tutta sola?
«Non sono sola. C’è Paolo con me. E poi i rapinatori sono già venuti. In tre. Mi ritrovai il capobanda in camera e lo apostrofai duramente: che cosa fa lei qui, come si permette? Restò disorientato. M’inginocchiai davanti a lui: la supplico, non faccia del male a mio marito, è molto malato e sordo. Quando ebbe finito di svuotare la cassaforte, mi ribellai: eh no, lei non può ridurmi così, qualcosa mi deve lasciare! Mi scaraventò per terra. Poi si accucciò accanto a me: “Chevvoi?”. Aprì il fagotto e mi lasciò scegliere quattro gioielli. Io afferrai un orologio antico di Bulgari regalatomi da mia madre. “Questo me serve”, ringhiò, e se lo riprese, lasciandomi gli orecchini con zaffiri, primo regalo di Roger, assai più preziosi».
È contenta del sindaco Virginia Raggi?
«Poverina, mi fa tenerezza. Ha ereditato una situazione molto più grande di lei. Mi dà fastidio quando la chiamano la sindaca. Sembra una malattia».
Nelle cronache Marisela Federici è – cito testualmente – icona, vamp, primadonna, ultima star, gran dama capitolina, regina dei salotti, bellissima levigata tipo porcellana di Meissen. Si riconosce?
«Regina dei salotti è umiliante. Non sono mica la signora Aiazzone!». 
E allora mi dia lei una definizione.
«Buona moglie e brava madre. Soprattutto timorata di Dio».