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 2018  marzo 19 Lunedì calendario

Il solito quasi-plebiscito per lo zar Putin, presidente per la quarta volta con più del 73 per cento

Putin sta vincendo le elezioni presidenziali con le percentuali previste. A un quarto dello spoglio, il suo nome risulta votato dal 73,9% degli elettori e l’affluenza alle urne si attesterebbe sul 64%. Putin avrebbe voluto il 70 per cento dei consensi con il 70% di affluenza, ma anche così non siamo lontani dall’obiettivo, che era quello di poter affermare che il 51% di tutti i russi (111 milioni gli aventi diritto al voto) sta con lo zar.  

Siamo al quarto mandato.
Sì, e Putin ha 65 anni. Resterà in carica fino al 2024, quando di anni ne avrà 71. Troppo vecchio? Mah. A quella data avrà regnato più di Stalin, cioè sarà il capo della Russia più longevo della storia. La costituzione gli vieterebbe un terzo mandato consecutivo, circostanza che si è già presentata e che Putin ha aggirato con una mossa settacolare: nel 2008, avendo concluso due mandati da capo dello stato e non potendo correre per la terza volta consecutiva, si candidò alla Duma, cioè essendo ancora presidente della repubblica si presentò alle elezioni per entrare in parlamento come semlice deputato. Il presidente della repubblica-deputato, una cosa mai vista in nessuna parte del mondo. Fu eletto e questo gli permise di trascorrere quattro anni da primo ministro, mentre la poltrona di presidente era tenuta in caldo dal fido Medvedev. Nel 2012 i due si scambiarono le parti. Medvedev primo ministro (lo è ancora) e Putin nuovamente capo dello stato: la costituzione vieta espressamente tre mandati consecutivi, ma non si pronuncia a proposito di tre mandati non consecutivi. La durata dell’incarico presidenziale è stata nel frattempo prolungata da quattro a sei anni, e forse Putin adesso pensa di aggirare l’ostacolo dell’ineleggibiltà del 2024 cassando la regola dei due mandati.  

C’è l’esempio di Xi a Pechino.
Gli analisti dicono che Vladimir Vladimirovic non si pone adesso il problema della rielezione, quanto il problema di un ridisegno del mondo che veda la Russia nuovamente riconosciuta come grande potenza. Ci si richiama al discorso del 1° marzo, quando Putin, davanti a mille parlamentari e con le telecamere puntate addosso, fece l’elenco delle armi a disposizione del Paese: missili intercontinentali a propulsione nucleare Sarmat, siluri sottomarini che possono viaggiare a enorme profondità e colpire una nave o città costiera dall’altra parte del globo, missili da crociera con motore atomico e gittata illimitata impossibili da intercettare, razzi Kinzhal (pugnale) che viaggiano a una velocità dieci volte superiore a quella del suono, missile intercontinentale ipersonico Avangard che «colpisce come un meteorite», ecc. Discorso preelettorale, perché il consenso intorno a Putin, verificato anche dagli inviati dei nostri giornali che sono andati a indagare, oltre che a Mosca (a un tratto pulita e ricca di ogni ben di Dio), nei posti peggiori del Paese, la povera Saratov o l’inquinatissina Karabash, si basa proprio su questo: l’orgoglio e l’ambizione di essere ancora, o di nuovo, quelli che contano, il concetto che «una sola superpotenza non va bene», quindi la forza delle armi esaltata dall’idea, ampiamente propagandata, che «il mondo ci assedia e ci impedisce di essere quello che dovremmo essere».  

Mi viene in mente che il caso della spia russa avvelenata a Salisbury potrebbe essere stato molto utile...
Già, chissà? Una dietrologia spinta potrebbe supporre che Putin abbia dato ordine di avvelenare Skripal e sua figlia per farsi attaccare e sanzionare, e guadagnare, di rimbalzo, consensi e partecipazione elettorale. Se si divide il mondo tra populisti sovranisti e globalisti capitalisti, risulta che Trump e la May della Brexit si trovano storicamente più dalla parte di Mosca che da quella di Bruxelles. Il gioco di Putin è quello di attrarre nella sua orbita i Paesi europei che ruotano intorno alla Germania, rompendo l’Unione, un’alleanza che non piace neanche agli americani. Lega e M5s sono, e non segretamente, amici di Mosca, i 23 diplomatici inglesi espulsi da Putin, con annessa chiusura del British Council, hanno permesso a Vladimir Vladimirovic di mostrare i muscoli e guadagnare in simpatie tra i suoi elettori...  

Ha senso, a questo punto, dare il tabellino del voto, con le percentuali anche dei suoi avversari?
È un dovere di cronaca, in ogni caso. Al secondo posto, col 15,44% s’è piazzato Pavel Grudinin, imprenditore delle fragole e comunista capitalista. Al terzo il vecchio leader nazionalista (come se Putin non fosse nazionalista) Vladimir Zhirinovsky, con il 6,96. Ksenija Sobciak (figlia di un putiniano di ferro), Grigorij Javlinskij, il comunista Maksim Surajkin, l’ombudsman degli imprenditori Boris Titov, e il nazionalista Serghej Bubarin seguono con percentuali minori. Stiamo a un quarto dello spoglio, i numeri possono cambiare.  

Se si fosse candidato Navalny?
Forse, chi sa. Anche se Limonov sostiene che tutti questi qui, compreso Navalny, sono in realtà amici di Putin mascherati, gente che s’’è messa in gara solo per dare una parvenza di democraticità alle elezioni. Limonov, intervistato da Francesco Battistini, va ancora più in là, non crede nemmeno al potere di Putin. «Voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto. Il Paese è governato da 30 famiglie, l’1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India. Lui è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group». Potrebbe essere. Se è vero da questa parte di mondo, dove a comandare sul serio non è la politica ma la finanza, perché non dovrebbe essere vero anche al di là della vecchia cortina di ferro?