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 2018  marzo 17 Sabato calendario

Nureyev. Gli 80 anni del genio che non è mai morto

“La danza è tutta la mia vita. È la mia condanna, ma anche la mia felicità. Se mi chiedessero quando smetterò di danzare, risponderei: quando smetterò di vivere”. Aveva torto, Rudolf Nureyev, che oggi avrebbe compiuto ottant’anni e che invece ci ha lasciato il giorno dell’Epifania del 1993. Aveva torto perché, se lui da allora non ha potuto più schiacciare la pece con la mezza-punta dei piedi, la sua danza – la sua rivoluzione – continua a incantare il mondo. Come la stella polare per i naviganti, ancora oggi tutti i ballerini che affrontano il palco devono fare i conti con il suo genio. Inarrivabile, e infatti mai ancora eguagliato.
Non era neanche la perfezione tecnica, in quel suo corpo prestato all’arte. “Ma quando un danzatore entra in scena in Giselle e fa quella camminata con il mantello addosso, non c’è bisogno di altro. Dentro c’è tutto”, racconta al Fatto Luciana Savignano, che con Nureyev ha avuto il privilegio di danzare: “Il mio repertorio è diverso, ma ho condiviso il palco con lui. Insieme, per esempio, abbiamo fatto il Poème de l’Extase di Roland Petit. Io interpretavo la Morte e lui con me combatteva in un bellissimo passo a due. Ero alle prime esperienze, sono stata costretta a tirare fuori tutto quello che avevo. Ma ho imparato moltissimo”. Come per la sua stessa vita, Nureyev non ammetteva mezze misure. Nella biografia scritta da Julie Kavanagh, si racconta che, se non gli piaceva una ballerina, era capace di lasciarla cadere a terra. E addirittura una volta ne avrebbe trascinata una sul pavimento. La danza era tutto, a lei non si poteva abdicare, proprio perché la danza aveva regalato al giovane Rudolf la libertà.
Nato nel 1938 a bordo di un treno che portava la madre a Vladivostok, dove era di stanza il padre, un commissario politico dell’Armata russa di origine tartara, era riuscito a entrare nell’Accademia di danza Vaganova aggregato al Kirov di Leningrado soltanto nel 1955. Tardi per un ballerino. Eppure, nel giro di pochissimi anni, era diventato uno dei danzatori più noti e acclamati dell’Unione sovietica. Realtà che gli stava stretta, tanto che, quando nel 1961 ebbe la possibilità di sostituire il primo ballerino infortunato in una trasferta parigina e, con il furore del pubblico, iniziò a frequentare stranieri ricevendo in cambio dalla sua patria un decreto di rimpatrio, Rudy quell’aereo che doveva riportarlo a casa non lo prese mai. Rimase in bilico tra l’Europa e gli Stati Uniti, in quel mondo che seppe riconoscere alla sua danza quello stato libero di cui il genio aveva bisogno. E Nureyev, in cambio, rivoluzionò il concetto stesso di danza maschile. “Ho sempre pensato che pas de deus stesse a indicare danza per due”, disse per rivendicare il suo ruolo.
“Fino a quel momento, il ballerino era stato soltanto un sollevatore di pesi, cioè di partner femminili – spiega il coreografo Luciano Cannito –. Nureyev è stato il primo a creare lo star system maschile nel mondo del balletto. Sul palcoscenico era un animale, potente, virile. Aveva qualcosa di magico, di magnetico. Dava la sensazione di essere un selvaggio, pur nel rispetto della tecnica. Già quando si diplomò al Kirov, eseguì una variazione del Corsaro che lasciò il pubblico esterrefatto. Gli addetti ai lavori sanno che non aveva un corpo particolarmente dotato, eppure ancora oggi ci si chiede da dove prendesse la capacità di fare certe cose”. Ed è proprio quello che manca di più, oggi. “Adesso ci sono danzatori perfetti tecnicamente – prosegue l’etoile Savignano –, ma nessuno ha il suo carisma, la sua personalità. E questa è la cosa più importante per un ballerino”. Non conta con quanta precisione riesci ad eseguire un entrechat huit, conta quanto – saltando – riesci a stregare il pubblico. “Vasil’ev e Baryšnikov sono gli altri due punti fermi nella Trinità del balletto – ancora Cannito –, ma nessuno dei due è stato ‘sincero’ come Nureyev. Così come non lo è nessuno degli attuali, neanche Polunin (considerato da molti l’erede di Rudolf, ndr)”.
Talmente sincero da vivere ogni esperienza senza risparmiarsi. Le amicizie – quelle con Margot Fonteyn su tutte –, l’amore. Legato a lungo al collega Erik Bruhn, il genio non ammetteva la monogamia. Affamato di conoscenza, da ognuno prendeva qualcosa, a ognuno dava qualcosa. Senza preoccuparsi delle conseguenze. Neanche dell’Aids, che lo assalì nel 1982: Nureyev non se ne preoccupò e, anzi, per anni, continuando a danzare, sostenne di essere affetto da altre malattie e rifiutò ogni trattamento. La danza era più importante, la danza era libera e nessuna malattia avrebbe potuto fermarla.
Forse quello fu il suo unico errore. Quando nel 1992 salì per l’ultima volta sul palco del Palais Garnier, i colleghi dovettero sostenerlo. Avrebbe voluto morire sul palco, ma la malattia fu così beffarda che non glielo concesse. Di lui, che oggi avrebbe compiuto ottant’anni, oltre alla sua incontenibile danza, restano le parole: “Consideratemi uno stilista”.