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 2018  marzo 17 Sabato calendario

L’Europa obbliga le banche italiane a recuperare i debiti marci in sette anni

L’anno scorso le banche italiane hanno prestato ai loro clienti 37 miliardi di euro in meno del già avaro 2016 (-6,34%) e quest’anno andrà ancora peggio: davvero, per farsi prestare dei soldi, sarà necessario avere novant’anni e presentarsi in banca accompagnati dai genitori. Sarà questo, più o meno, l’effetto dell’ennesima batosta che sta arrivando sui nostri istituti di credito da Bruxelles (Commissione europea) e soprattutto da Francoforte (vigilanza bancaria europea della Bce) per le nuove regole alle quali le banche dovranno attenersi nel valutare le sofferenze nei loro bilanci, ossia quei crediti erogati ai clienti e non recuperati che in inglese si chiamano Npl (non performing loans, prestiti che non rendono). Ma c’è di più e c’è di peggio. A leggere bene le nuove norme si capisce che la Bce e la Commissione europea non hanno voluto minimamente tenere in considerazione il fatto che la giustizia civile italiana fa pena, anzi fa schifo, insomma non funziona, per cui hanno deciso di accordare alle banche al massimo sette anni di tempo (la Bce) oppure otto anni (la Commissione europea, sempre in dissenso tra loro, ma questo è il problema dell’Europa che funziona peggio della nostra giustizia civile) per spesare nei propri conti le perdite legate agli Npl che hanno garanzie. TROPPI INSOLVENTI Proviamo a spiegarci, perché queste cose picchiano direttamente nella tasca di due milioni di italiani insolventi e indirettamente su quelle di un’altra decina di milioni di loro parenti e amici. La Banca Pinco eroga al signor Pallino centomila euro di mutuo per comprarsi casa, e prende un’ipoteca sulla casa a garanzia. Il signor Pallino a un certo punto perde il posto di lavoro, e smette di pagare le rate del mutuo: ne aveva pagate venti, gliene restavano 80, quindi 80 mila euro (per semplificare) che la banca rischia di perdere. Quel mutuo diventa una sofferenza, un Npl. Le nuove regole impongono alla Banca Pinco di spesare in sette anni nel proprio bilancio quegli 80 mila euro persi. In che modo? Per i primi tre anni (dal momento in cui il Signor Pallino ha smesso di pagare e la banca ha dovuto quindi definire sofferenza» il suo mutuo) la banca dovrà cercare di «escutere» la garanzia, cioè prendersi la casa e vendersela. Poi, comunque siano andati questi tentativi, al terzo anno la banca dovrà cominciare a coprire di tasca propria in bilancio il 40% del valore della sofferenza, al quarto anno il 55%, al sesto anno l’85% e alla fine del settimo anno il 100%, spesando queste perdite dai propri utili, insomma smenandoci. Come mai questi due termini di tempo di sette o otto anni per la «copertura» delle perdite in bilancio? Perché l’Europa dice: «Cara Italia, o le tue banche in sette-otto anni riescono a realizzare una garanzia, oppure peggio per voi! Sono cavoli vostri, pagate». Perché l’Europa sa che in un Paese civile una causa civile è civile sul serio, e quindi arriva a sentenza definitiva in tre-quattro anni, cosicchè al quinto la garanzia può essere escussa e realizzata, ma in Italia? In Italia macchè. L’ultimo rapporto del World Economic Forum, pubblicato a novembre, classifica la «Efficiency of legal framework in settling disputes», cioè «l’efficienza del sistema giudiziario nella definizione delle cause» al 134° posto nel mondo su 137 Paesi. Lo Zimbabwe è al 78° posto, lo Zambia al 52°. Insomma, giuridicamente l’Europa ci considera, giustamente, un Paese di trogloditi. Per questo dice: «O vi fate bastare sette-otto anni, oppure fottetevi». E in che modo, «ci fottiamo»? Nel seguente. In concreto, le banche disperando della possibilità di escutere le garanzie in tempi decenti (le case sono un problema, ma anche tutti gli altri tipi di garanzie) prendono questi maledetti Npl e li svendono ai fondi-avvoltoio, tutti anglosassoni, a prezzi ridicoli, pur di mettersi al sicuro qualche introito: quel famoso mutuo del signor Pallino a cui mancano 80 mila euro di rimborso viene svenduto a 16 mila, in media il 20% del valore, e intanto il signor Pallino resta esposto in centrale rischi, cioè deve comunque rimborsare quando potrà il debito residuo, ma nessun altro gli darà mai più un mutuo e per il sistema bancario è un morto che cammina. FONDI AVVOLTOIO E il fondo avvoltoio, cosa fa? Stipendiando un esercito di avvocati (che però è l’unico suo costo) aspetta il tempo necessario per arrivare a sentenza – se non trova, com’è capitato a Pisa, qualche giudice corruttibile da steccare per far prima dividendo i guadagni – e una volta carpita la proprietà della casa, la svende all’asta. Del resto, avendo pagato solo 16 mila euro, anche ricavarne 35 mila è un affarone, e lo è anche per chi la compra. Ma alla banca resta comunque un buco in bilancio da 65 mila euro (la differenza tra quanto pagato dal cliente prima di saltare e dal fondo avvoltoio), il signor Pallino è un cadavere ambulante creditizio, ha perso la casa, ha perso tutto. E l’Italia ha passato un guaio economico. Gli unici a guadagnarci? Il compratore all’asta e il fondo avvoltoio. Con queste premesse, che ieri le banche italiane siano salite in Borsa si spiega solo col fatto che i mercati si aspettavano norme ancora più severe contro di noi. Ma la colpa del disastro è anche e soprattutto della mostruosa inefficienza del sistema giudiziario, di cui i partiti politici si sono guardati bene dal promettere riforme, in campagna elettorale, a scanso di rappresaglie dalla casta delle toghe. Postilla: per spesare sofferenze bancarie prive di garanzie, le nuove regole concedono alle banche solo due anni. Ma è tanto per dire: quale banca, oggi – anzi da anni, ormai – si sogna più di prestare soldi senza garanzie? riproduzione riservata nnnSe si dovesse rappresentare la situazione del sistema socio-economico-finanziario del nostro Paese a livello meteorologico, apparirebbe un tiepido sole e parecchi nuvoloni neri all’orizzonte, con rischi, tutt’altro che secondari, di intensi e duraturi temporali. L’assenza da oltre 20 anni di una politica industriale, coordinata e continuativa, è la prima origine delle nubi e dei temporali. È mancata una vision che, al passo con i tempi, sapesse comprendere le enormi novità industriali, che, da fine anni 90, stanno modificando il mondo. Internet, il digitale, la robotica, la domotica e l’intelligenza artificiale, hanno generano una rivoluzione non solo industriale, ma anche commerciale e dei servizi, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, e della quale noi siamo stati più vittime che attori. Mentre nuovi possenti giganti imprenditoriali si impossessavano delle sorti del globo, noi perdevamo per strada i pezzi di un’industria manifatturiera che, nei primi trent’anni del dopoguerra, era stata ai vertici del sistema europeo, riuscendo ad essere anticipatrice di modernizzazione. Olivetti, Alfa Romeo, Lancia, Fiat, Ignis, Montedison, Motta e Alemagna, Farmitalia e Sclavo, Pirelli, tanto per citare i casi più lampanti, ma non certo i soli, erano al vertice mondiale di settori o comparti, l’Alitalia era ritenuta la numero uno dei cieli per eleganza, puntualità è raffintezza, i nostri maggiori costruttori avevano cantieri in ogni dove, le grandi famiglie imprenditoriali dagli Agnelli ai Falck, ai Pirelli e a molti altri, godevano di una reputazione internazionale da prima donna. La politica e i governi pur avendo una vision limitata, sovente provinciale e campanilistica, esprimevano leader di rango. Poi dal dopo Tangentopoli e con l’invecchiamento di quella classe imprenditoriale e politica, se non di tracollo si deve parlare sicuramente di una debacle, che ha scardinato il sistema socio-economico e pur disponendo ancora di parecchie eccellenze di nicchia, le quali contano e pesano, grazie all’export, in misura rilevante per il nostro Pil, abbiamo perso una moltitudine di grandi imprese. Quelle ancora rimaste, a parte le semi pubbliche Eni, Enel e Leonardo e le private Atlantia, Autogril, Luxottica, sono tutte a capitale estero. Da anni si parla di fusioni e incorporazioni, ma di concrete se ne sono fatte ben poche, e in questa quarta era industriale contano dimensioni, fatturati, utili, capacità di indebitarsi per poter investire, sia per acquisire, che per modernizzarsi continuamente. Diventa indispensabile procedere verso una politica industriale-finanziaria che incentivi le maggiori imprese dei più svariati settori a mettersi insieme, con un supporto pubblico, in termini di sostegno internazionale e di agevolazioni burocratiche e fiscali. Così hanno fatto i francesi per auto e soprattutto moda, i tedeschi per tecnologie e chimica e farmaceutica, gli Usa per un po’ tutti i settori. La Cina è e sarà dominante nel globo, inutile contrastarla, importante esserci con imprese pesanti. Tocca ai politici creare una politica industriale e commerciale in grado di stimolare la nascita di colossi che abbiamo perso, ma che potrebbero, anche se ormai in limitati casi, ancora esserci. riproduzione riservata