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 2018  marzo 17 Sabato calendario

La distanza nella Ue tra Merkel e Macron

I negoziati di coalizione in Germania si sono protratti oltre il previsto. I Paesi dell’Est Europa restano fermi sulle loro posizioni di chiusura, soprattutto su Stato di diritto e immigrazione. I nordici non concedono nulla sulla riforma dell’Unione bancaria e su quella dell’Eurozona. Jean-Claude Juncker è indebolito dalle polemiche per la promozione del suo braccio destro (Martin Selmayr) a segretario generale della Commissione, una manovra di palazzo che ha gettato ombre sull’esecutivo Ue. Donald Trump ha dichiarato la guerra commerciale. Come se non bastasse, è arrivato lo choc per il risultato elettorale in Italia, inasprito dall’incertezza sugli scenari futuri. Quella che sta per iniziare in Europa non è certo la migliore delle primavere possibili. «E se l’unica cosa che il duo franco-tedesco è in grado di proporre è una roadmap – dice pessimista una fonte diplomatica – allora il rischio paralisi è concreto».
Il 13 settembre Jean-Claude Juncker, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, aveva evocato l’immagine di un’Europa «con il vento in poppa». Lasciati alle spalle il referendum sulla Brexit, l’elezione di Trump e il voto in Olanda e Francia, il presidente della Commissione aveva invitato i governi ad approfittare di questa «finestra di opportunità», prima delle prossime elezioni del 2019, per accelerare con le riforme necessarie alla Ue. Non aveva fatto i conti con l’esito del voto tedesco, materializzatosi 11 giorni dopo, e dello stallo provocato dai negoziati di coalizione. Non aveva calcolato che la luce in fondo a quel tunnel si sarebbe fatta vedere soltanto la prima domenica di marzo, quando però è subito tornato il buio di un nuovo tunnel. Quello del voto italiano. «Quella finestra di opportunità rischia di chiudersi ancor prima di essersi aperta» ragionava nei giorni scorsi un pezzo grosso dell’Europarlamento, ricordando che a fine anno partirà la campagna elettorale «e tutto si fermerà».
Il Consiglio europeo di marzo (giovedì e venerdì della prossima settimana) doveva essere il primo grande appuntamento per la riforma dell’Eurozona. «Presenteremo il nostro piano comune», avevano detto a dicembre Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Ma è mancato il tempo per prepararlo e soprattutto restano le distanze che dividono Parigi da Berlino. Nel frattempo si sono fatti avanti i nordici, con un documento che va nella direzione opposta a quella di Macron. Come a segnare il territorio. Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, nel documento pre-summit scrive che le proposte fin qui avanzate «hanno raccolto un consenso limitato». E quindi dai progetti concreti siamo tornati alle roadmap. Due passi indietro.
Entro giugno, poi, c’è da sciogliere il nodo della riforma di Dublino. Anche qui, all’orizzonte non si intravede alcuna convergenza. I Paesi dell’Est continuano a rifiutare la redistribuzione dei richiedenti asilo. Altri, Italia e Germania in primis, non vogliono arretrare. Anche per non cedere sul principio di solidarietà. La sintesi è impossibile. Ufficialmente la deadline rimane fissata a giugno, lo ha ribadito nei giorni scorsi anche il commissario Dimitris Avramopoulos. Eppure c’è già chi è pronto a scommettere sull’ennesimo rinvio: «Approvarla senza un governo in Italia, o senza che questo abbia avuto modo di partecipare ai negoziati, sarebbe uno schiaffo al vostro Paese – confida un diplomatico del Nord -. E, visto come sono andate le cose il 4 marzo, sarebbe una mossa suicida».
Paradossalmente a tenere uniti i 27 c’è la Brexit, grazie alla debolezza del governo britannico. Ma gli effetti collaterali dell’uscita di Londra hanno scoperto un altro nervo: il bilancio Ue post 2020. In questi mesi i governi dovranno negoziare gli aspetti più critici: definire le nuove priorità da finanziare, come coprire il buco lasciato dagli inglesi e di conseguenza scegliere quali capitoli di spesa tagliare. E quando ci sono di mezzo i soldi le crepe rischiano di diventare fossati.