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 2018  marzo 17 Sabato calendario

Gabriele Cagliari, morte di un manager nel rifiuto di un disonore

La Storia, si sa, non può essere scritta né dai vinti né dai vincitori. E tuttavia deve ascoltare entrambi e comprenderne le ragioni. La storia di tangentopoli non può dunque essere ricostruita dai magistrati, né dagli imputati, né tantomeno da chi ha sostenuto acriticamente gli uni o gli altri. Queste interpretazioni di parte sono tuttavia essenziali per comporre i tasselli di un mosaico complesso, che potrà forse esser ultimato quando gli interessi saranno dissolti e le emozioni placate. Un traguardo che, per il nostro Paese, si profila purtroppo ancora lontano.
Il libro di Stefano Cagliari Storia di mio padre racconta la tragica fine del padre Gabriele, presidente dell’Eni, arrestato e suicidatosi in carcere nel Luglio 1993 dopo 134 giorni di reiterate quanto vane promesse di liberazione. È dunque la versione di una vittima, che contribuisce alla ricostruzione di quel funesto periodo dalla sua prospettiva particolare. La vicenda sembra, sin dagli inizi, la rievocazione del libro di Giobbe: a Stefano si ammalano gravemente la moglie e il fratello, persino il figlioletto finisce in ospedale. Poi la giovane muore, e infine il padre si suicida. Soltanto il rigore laico della famiglia impedisce di rivolgersi al Cielo in termini di ribellione blasfema.
In questa immensa tragedia, l’atteggiamento del detenuto subisce un’evoluzione. Da principio ammette le sue colpe: l’Eni contribuiva al finanziamento dei partiti, e in particolare di quello socialista, e lui, da presidente, se ne assume la responsabilità. Come Riccardo II davanti a Bolingbroke ha dipanato la matassa delle sue colpe, e attende la scarcerazione. Ma questa non arriva. L’ALLARME
L’iniziale accettazione dell’arresto diventa allarme: allarme per sé, ma soprattutto per le istituzioni. Cagliari teme che si stia affermando uno stato di polizia, con una magistratura aggressiva e ricattatrice, e un Parlamento «di partiti distillati dai giudici». Un’espressione forte, ma sempre attuale. Poi il timore diventa aggressività. Cagliari non sopporta le insistenze dei Pm affinché coinvolga altre persone indagate in altre inchieste: lui ha confessato la sua parte, che altro si vuole? Che diventi un delatore infame? Che distrugga quel che resta dell’Eni? Mai. E la rabbia cresce. Lo salvano, temporaneamente, la stima dei carcerati, le poche amicizie rimaste e soprattutto la famiglia. Alla moglie Bruna scrive lettere commoventi e poesie quasi strazianti. Alcune preludono all’epilogo: «Che il corpo di guardia non senta / i passi della morte invocata». Altre urlano il loro disprezzo ai grossolani inquisitori: «Una toga nera mi chiama, non parla, comanda: sputate sui vostri ricordi/ tirate pugnali alle spalle/ che aprano cento ferite». È l’invito alla delazione. Un’umiliazione che lo oltraggiava. E infine le lettere, piene di orgoglio e di amore. Non le citiamo per non alterarne il contenuto. Ma ne suggeriamo il commento alla Scuola superiore della Magistratura.
Tuttavia questo orgoglio ha anche una matrice politica, e quindi credo sia giusto provare a formulare un giudizio politico.IL RICORDO
Partirò da un ricordo personale. Dopo aver denunciato alla Camera il finanziamento illegale di tutti i partiti, Craxi rilasciò varie interviste lamentando che le Procure «girassero la testa dall’altra parte» quando lui parlava dei contributi al Partito Comunista. Io stavo indagando (anche) sulle coop rosse, e convocai l’Onorevole con il suo avvocato. L’interrogatorio avvenne in un luogo riservato, per evitare le disgustose esibizioni di plebaglia avvenute altrove. Esordii così: «Presidente, io sono il Pm e questo è un atto ufficiale; vi assistono un colonnello dei Carabinieri e il segretario verbalizzante. Dica tutto quello che deve dire, l’ascoltiamo». Craxi mi guardò allibito; vinte le prime esitazioni prese carta e penna e scrisse una sorta di memoriale in cui ripeteva quanto aveva detto alla Camera. Mi restituì i fogli soddisfatto. L’allibito ero io. «Scusi risposi – queste cose le sappiamo già. In un’indagine servono nomi e fatti specifici». Al che, dopo matura riflessione rispose triste: «No, io il delatore non lo faccio». Era dignità, o illusoria speranza che, tacendo, qualcuno dell’altra parte gli avrebbe dato una mano? Probabilmente un po’ di entrambe le cose. Rimasi deluso: Craxi non aveva capito quanto stava accadendo, e soprattutto quale avrebbe potuto essere l’unica via di uscita.
L’analoga scelta di Cagliari fu certamente dettata dalla dignità alimentata dalla rabbia. Rivista a distanza, alla luce delle sue lettere, assume davvero la grandezza shakespeariana di uno stoico rifiuto al compromesso e al disonore. Essa costituisce l’epilogo di una lacerante delusione generale, ma soprattutto di una riflessione politica espressa con estrema lucidità. La convinzione cioè che fosse in atto un procedimento per rivoluzionare il sistema parlamentare, attraverso gli strumenti della carcerazione umiliante, e della delazione legalizzata. Allora il suicidio non è solo un gesto di sdegnosa rivolta. È molto di più: è un avviso di allarme sulla tenuta delle istituzioni.IL GESTO
Dal punto di vista umano fu un esempio di coraggio virile. Ma, politicamente, fu un gesto sbagliato, ed infatti tutto restò come prima. Fu un peccato che un’intelligenza così viva, assistita da tanto ardimento, non avesse compreso che quel mondo era finito, e che l’unico modo per ricostruire una democrazia moderna, dopo la caduta del muro di Berlino, era una completa e disinteressata rivelazione di tutte le perversioni della prima repubblica, a fronte delle quali anche le colossali tangenti dell’Eni erano trascurabili peccatucci. Soltanto Cossiga, nella sua genialità disordinata, aveva compreso l’utilità, anzi la necessità della Grande Confessione. Cagliari, e con lui tutta la ex classe dirigente, avrebbe potuto e dovuto, dopo aver dipanato la matassa delle colpe proprie, rivelare quelle altrui, di cui tutti loro erano perfettamente a conoscenza. Queste colpe riguardavano ovviamente il Partito comunista, foraggiato dalle Coop e soprattutto da uno Stato che teneva i missili nucleari puntati su di noi. Ma riguardavano un po’ tutti, dai magistrati postulanti cariche ai giornalisti asserviti, dalle organizzazioni sindacali alla burocrazia collusa: insomma quel collateralismo occulto che aveva consentito per decenni la spartizione generalizzata della torta comune attraverso la corruzione, il clientelismo e lo spreco. Questa scelta fu ripudiata perché fu intesa da Cagliari come una sorta di resa codarda per riacquistare la libertà. Essa, ripetiamo, rende onore alla sua dignità e alla sua coerenza, ma non alla sua lungimiranza politica. Perché non sarebbe stata né delazione né ritirata, ma contrattacco massiccio e razionale. TERRA BRUCIATA
L’incendio inarrestabile della rivoluzione per via giudiziaria avrebbe potuto esser domato facendogli attorno terra bruciata, cioè anticipando il gioco dei giudici. I risultati si vedono ancora oggi: una politica incerta e goffa, subalterna a una magistratura sempre pronta a scodellare candidati magari per sostituire amministratori da lei stessa inquisiti. Per questo, leggendo le ultime lettere di Gabriele Cagliari, il sentimento dominante, oltre a una sincera compassione, è il rammarico per una grande occasione perduta.