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 2018  marzo 17 Sabato calendario

Con il rischio di una legislatura troppo breve 500 neoeletti sono tentati di tenersi i contributi

Scommettere su una (buona) pensione a 65 anni o incassare subito i (lauti) contributi rinunciando ad ogni diritto previdenziale? È il dilemma che giovedì 23 marzo, primo giorno di lavoro, affliggerà i 500 neoeletti della diciottesima legislatura.
Ma non li avevano aboliti i vitalizi? Si, è vero, dal primo gennaio 2012 (giorno di entrata in vigore della riforma Fornero) anche per i neodeputati e i neosenatori vige un sobrio sistema di calcolo contributivo per la loro pensione. E tuttavia la dura vita del (neo)parlamentare continua ad iniziare da un dilemma pensionistico.
Perché? Il fatto è che, anche se lo sanno in pochi, per gli onorevoli (regionali compresi) la pensione è facoltativa. Dal 2012 la regola previdenziale per gli eletti in Italia recita così: se per il lavoro che fai presso il Parlamento vuoi maturare una pensione (a 65 anni) versi i contributi alle casse previdenziali della Camera, del Senato o delle Regioni ma puoi anche rifiutare di mettere da parte i soldini per la pensione e in questo caso i contributi, sia tuoi che quelli del datore di lavoro, Camera, Senato o Regione che sia, te li metti in tasca subito e fai pure cadera un macigno sulle polemiche legate ai vitalizi.
Molti consigli regionali hanno già attraversato il Rubicone optando per l’eliminazione alla radice di ogni forma di previdenza. È il caso ad esempio del Consiglio del Piemonte dove la gran parte dei consiglieri oggi in carica già da quattro anni non paga i contributi.
Ma che cosa faranno giovedì i neoparlamentari? Difficile dirlo. Perché nella stragrande maggioranza non sanno nulla dei meccanismi previdenziali legati alla loro professione. E tuttavia è possibile che molti decidano di non versare i contributi facendosi guidare dal fiuto politico: infatti chi considera probabile che si vada a rivotare prima del 2023, scadenza naturale della legislatura, fa bene a non versare un euro per la pensione.
La ragione è semplice: la legge del 2012 prevede che per avere diritto alla pensione da onorevoli bisogna versare contributi per almeno 4 anni sei mesi e un giorno. E se le Camere vengono sciolte prima? Si perde tutto: diritto alla pensione e contributi versati.
La ragione di questa tagliola sta nel fatto che anche i lavoratori normali non maturano la pensione con meno di 20 anni di contributi. Dunque chi ha scritto la riforma dei vitalizi parlamentari nel 2012, gente che di pensione ne capiva, per senso di equità ha voluto fissare anche per gli onorevoli un periodo contributivo minimo.
Per i deputati le cifre in gioco sono alte. Un onorevole versa dal suo stipendio circa 800 euro al mese alle Casse previdenziali di Camera e Senato. A questi soldi si aggiungono più o meno altri 2.000 euro al mese versati come contributi dai datori di lavoro, ovvero Camera e Senato. Questo gruzzolo contributivo di circa 33.000 euro l’anno (150.000 dopo 4 anni e mezzo) assicura una pensione contributiva di 1.000 euro al mese a 65 anni. Ovvio: se la legislatura durasse almeno fino all’autunno 2022. Ma in quanti ci credono?