Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  marzo 16 Venerdì calendario

Cosa ci insegna la fine di Toys “R” Us

Quando chiudono oltre 800 negozi di giocattoli negli Stati Uniti in un colpo solo, e chissà che fine faranno gli altri millesparsi per il mondo intero con lo stesso marchio, non ci si può non fare la domanda: perché? Di chi è la colpa? La caduta di Toys "R” Us è la fine di un regno durato 70 anni esatti, e non è meno fragorosa della fine di Kodak per la fotografia o di Nokia per la telefonia, per citare altre due aziende che sembravano destinate ad una leadership eterna solo una decina di anni fa. Anche Toys "R” Us sembrava eterna (qui una timeline piuttosto completa) e aveva tutti gli ingredienti del sogno americano: era stata fondata nel 1948 da Charles Lazarus. L’America aveva appena vinto la Seconda Guerra Mondiale, era tornata una irresistibile voglia di fare figli, e Lazarus, che aveva 25 anni, aprì a Washington DC un piccolo supermercato di roba per bambini: con il boom economico fu presto chiaro che il vero business non erano i pannolini ma i giocattoli. Il cambio di nome fu naturale: Toys "R” Us, letteralmente i giocattoli siamo noi, è stato il primo supermercato di giocattoli  per bambini. E per decenni migliaia di genitori di tutto il mondo hanno accompagnato i figli in questi paesi dei balocchi da cui era impossibile uscire senza aver comprato qualcosa. La fine non è stata rapida. E certamente è dovuta al fatto che Amazon e Walmart si sono messe a vendere giocattoli online e che gli stessi genitori hanno iniziato a comprare con un clic senza muoversi da casa. E poi al fatto che i bambini e i ragazzi molto del loro tempo libero lo passano facendo videogame, spesso senza neanche comprare una console, ma soltanto usando le app dei telefonini.
Insomma il mondo stava cambiando con il digitale e che facevano i grandi capi di Toys "R” Us per restare in pista? Giocavano a fare i finanzieri. Il 21 luglio del 2005 la società è stata acquista da un consorzio di investitori per 6.6 miliardi di dollari ma mettendone davvero solo 1,3 miliardi di dollari. Praticamente hanno comprato la società con i soldi della società. Si chiama leverage buy out. I soldi mancanti sono diventati il debito che ha affondato il business: parliamo di 400 milioni di dollari di interessi l’anno che potevano essere investiti nel fare un sito web migliore con un servizio ecommerce adeguato alla sfida di Amazon per esempio.
Gli investitori in realtà avevano un piano: quotarsi in Borsa nel 2013 e scaricare i problemi sui piccoli azionisti ma qualcosa all’ultimo è andato storto: semplicemente i conti erano troppo brutti per attrarre qualcuno. E il cerino, anzi l’incendio,  si è bruciato nelle mani di chi l’aveva acceso. Anzi si è bruciato nelle mani dell’attuale amministratore delegato, David Brandon, arrivato tre anni anni sulle ali del successo per la gestione di una grande catena di pizzerie (Domino’s Pizza). Come se le pizze e i giocattoli fossero la stessa cosa. Quando, come dimostra il ritorno delle librerie negli Stati Uniti, l’unico antidoto al digitale è fare le cose meglio, con più cura, con più amore per il prodotto. E quindi la risposta alla domanda iniziale, di chi è la colpa?, è semplice: è l’innovazione, bellezza, che non a caso in casi simili si chiama innovazione distruttiva perché distrugge chi invece di innovare pensa solo ad arricchirsi giocando con i soldi degli altri.