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 2018  marzo 15 Giovedì calendario

E qui le aziende assumono filippini al posto degli italiani

Gli immigrati faranno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, cioè tutti. Il rischio è questo. Che succederà, infatti, se di lavori non ne rimarranno altri? Che accadrà se gli immigrati non si limiteranno a raccogliere pomodori al Sud (sfruttati, in nero) o a cedere alle sirene della manovalanza criminale? Ci penserà il mercato a rispondere: così, oggi, fingiamo di stupirci se la catena di ristoranti milanesi Burgez ne accennavamo ieri ricerca una cassiera e ammette pubblicamente di cercarla di etnia filippina, perché le italiane parole loro hanno decisamente meno voglia di lavorare, sono svogliate, difficili da gestire. «Le italiane il sabato hanno il moroso, il mercoledì hanno la palestra, la domenica la stanchezza, eccetera» hanno scritto in un post, prima di aggiungere: «Italiane, svegliatevi. Il lavoro c’è, siete voi che non ci siete». Ora le reazioni sui maledetti social già le immaginate: siete degli sfruttatori, sessisti, razzisti e schiavisti. I più tecnici invece hanno ragionato così: ecco, assumete le filippine solo perché potete pagarle due soldi e potete farle lavorare come muli con contratti a chiamata, eppure «gli italiani, donne e uomini, lavorano bene e tanto, ma la scopa nel culo no». Termine tecnico. Il fondatore di Burgez, Simone Ciaruffoli, ha risposto così: «Sono contratti nazionali: italiani o filippini o nigeriani non cambia nulla, è tutto in regola e alla luce del sole. Noi siamo puliti, la scopa la usiamo bene e ci piace usarla sul pavimento». 
UN CASO TIRA L’ALTRO 
Il resto, ora, interessa poco: ci interessa che stiamo parlando di un caso singolo che ne rappresenta infiniti altri, perché è proprio in questa fascia di “neoproletariato” che rischia di andare a infilarsi tanta parte dei giovani da qui al 2050: secondo un focus del Censis anche di questo abbiamo accennato ieri entro il 2050 l’Italia rischia di avere oltre 3 milioni di cosiddetti “Neet” (18-34 anni) più 2,7 milioni di generici “working poor” (poveri benché lavoranti) e cioè un esercito di 5,7 milioni di nuovi poveri, gente che peraltro, se non si adeguerà al mercato, rischierà di farsi soffiare il posto dagli immigrati: che si tratti di cassiere filippine, pizzaioli egiziani o altre professionalità che gli immigrati volenterosi apprenderanno nel tempo e, forse, senza palesare problemi di moroso, di palestra, di stanchezza e di svogliatezza. 
È un problema per tutti, questo: non stiamo facendo, ora, una patetica rivendicazione generazionale sui “giovani d’oggi”, quelli che non sono mai quelli di ieri: il loro ritardo nell’entrare nel mondo del lavoro, oltreché la loro discontinuità contributiva e la loro debole dinamica retributiva (italiani o immigrati che siano) metteranno a dura prova la previdenza di questo Paese e la sua tenuta complessiva. 
DIBATTITO SOCIAL 
Discorsi noiosi? Il dibattito “social” in compenso è più dinamico, anche se si sofferma soprattutto su cazzate: più che altro gli utenti distribuiscono o respingono accuse di razzismo e sfruttamento, specialità di chi passa giornate su Facebook perché probabilmente un lavoro non ce l’ha. Il materiale non manca, al pari di notizie perfettamente contraddittorie. Un’altra notizia molto dicussa, infatti, è che gli armatori del gruppo Onorato (Moby e Tirrenia) sono stati accusati di razzismo o xenofobia per decisioni opposte a quelle dei ristoranti Burgez: cioè perché assumono solo italiani e addirittura se ne vantano, anzi, hanno fatto delle pubblicità in cui la presenza di personale nostrano viene celebrata: «Navigare italiano non è solo uno slogan, significa avere 5.000 lavoratori italiani altamente qualificati per offrire un servizio impeccabile». 
Che è una scelta economica non da poco e che occorre potersi permettere, non è solo un distinguo social-culturale: i contratti nazionali infatti costano molto di più. Un mozzo filippino, per dire, te lo porti a bordo con 880 euro, mentre per un italiano o comunitario occorre spenderne almeno 2.140. Il gruppo Onorato ne fa una campagna sociale anche per denunciare la pratica di assumere personale extracomunitario e meno qualificato, questo per risparmiare su contributi e buste paga: gli extraeuropei sulle navi oscillerebbero tra il 43 e il 60 per cento, percentuali che cambiano a seconda che le fonti siano imprenditoriali o sindacali. In compenso ci sarebbero almeno 50mila italiani disposti a imbarcarsi per lavorare: su questo le fonti convergono. Ma di fronte a tutto questo fioccano accuse di discriminazione persino dal vacuo e governativo Unar, “ufficio antidiscriminazioni razziali del dipartimento pari opportunità della presidenza del consiglio”. Loro la mettono così: «Il servizio è migliore se sulla nave il personale è italiano?». Possibile risposta: sì, perché non stiamo parlando di cassiere per hamburger, ma di personale che deve anzitutto poter comunicare efficacemente (anche via radio) e il cui percorso professionale deve essere tracciabile per ragioni di sicurezza: senza contare che la tradizione della marineria italiana affonda le sue radici nei secoli, non è proprio da buttar via, anzi. 
Purtroppo ci sono tendenze che convergono in negativo. È innegabile che i contratti nazionali siano votati al ribasso e con essi anche alcuni diritti. Ma è innegabile che s’avanzi una generazione in tutto l’Occidente, non solo in Italia a cui non è stato insegnato il valore del lavoro e del tempo necessario per raggiungere determinati risultati. Ed è pure innegabile che si tenda ad assumere sulla base delle caratteristiche richieste, se lecite: i pregiudizi contano, ma i giudizi anche di più. Solo il reddito di cittadinanza non farebbe distinzioni tra chi ha fame e chi vuole soltanto l’ultimo modello dell’iPhone.