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 2018  marzo 16 Venerdì calendario

L’ipotesi flat tax e quei precedenti nei paesi dell’est

I due partiti che hanno vinto le elezioni hanno promesso rispettivamente reddito di cittadinanza e flat tax. La forza politica che più è stata penalizzata dagli elettori, il Pd, ha avuto come unico centro della sua campagna elettorale proprio l’opposizione alla flat tax.
Si può benissimo pensare che gli italiani fossero ansiosi di affidarsi al primo pifferaio disponibile. Oppure si può pensare che il successo di flat tax e reddito di cittadinanza segnali dei problemi ai quali sarebbe opportuno rispondere, senza mettere però a repentaglio le finanze pubbliche.
Chi vorrebbe una tassa piatta esprime una domanda di radicale semplificazione del fisco. La richiesta di un reddito di cittadinanza sottintende una critica al modo in cui funziona lo Stato sociale: generoso con le classi medie, che sanno presentare domande ben compilate e riescono a usufruire di ogni detrazione disponibile, ma assente per i più poveri.
Sin dalla scorsa estate, Nicola Rossi e l’Istituto Bruno Leoni hanno presentato una proposta che unisce aliquota unica e «minimo vitale»: ovvero una misura di contrasto alla povertà a «vocazione» universalistica. «Vocazione» perché questo «minimo vitale» sarebbe differenziato geograficamente e per dimensione del nucleo familiare, indipendente dallo stato professionale dei singoli ma non incondizionato. Implicherebbe l’abolizione dell’attuale congerie di prestazioni assistenziali. La sua erogazione, dopo i primi tre anni, andrebbe a trasformarsi in una sorta di «sussidio contributivo», nella speranza che ciò possa ridurre l’effetto sull’offerta di lavoro.
Ibl propone un’aliquota del 25%. A quel livello non verrebbe fissata solo l’imposta sul reddito, ma anche altre, abolendo contestualmente Irap, Imu e Tasi.
Gli avversari della flat tax hanno quattro argomenti: le difficoltà di finanziamento, la compatibilità costituzionale, l’iniquità, le difficoltà «politiche» della riforma.
È chiaro che un’Irpef al 15% sarebbe molto difficile da finanziare. Ma una flat tax al 25% riporterebbe sostanzialmente la pressione fiscale complessiva, nel Paese, ai livelli dei primi Anni 2000, non di inizio ’900, collocandoci lievemente al di sotto (anziché regolarmente al di sopra) della media europea. I costi del «minimo vitale» sarebbero coperti da un radicale riordino delle prestazioni assistenziali (mentre sarebbe insostenibile senza quest’opera di riordino). I minori introiti dell’Irpef al 25% andrebbero pareggiati con una operazione di «spending review» di circa 27 miliardi: dimensioni non incompatibili con i rapporti Cottarelli e Perotti. L’aumento dell’Iva al 25% è già previsto dai documenti di finanza pubblica: a dispetto di quanto è stato scritto, Ibl si è semplicemente attenuto a quelli.
La flat tax sarebbe incostituzionale perché l’articolo 53 stabilisce che il sistema fiscale «è informato a criteri di progressività». Indipendentemente dal minimo vitale, la flat tax prevede la «progressività per deduzione»: ci sarebbe una quota esente, per un single 7000 euro annui, cifra che cresce in caso di famiglie composte da più di una persona. Un single che guadagnasse 20.000 euro annui pagherebbe il 25% non di 20.000, ma di 13.000: la differenza fra il suo reddito e la deduzione base.
Per questo, è difficile sostenere che l’esito sarebbe un sistema fiscale più iniquo di quello attuale, che concentra tutta la progressività su un modesto segmento di contribuenti.
Che sia una riforma difficile da fare, è vero. Che la flat tax torni spesso nel discorso pubblico americano ma sia stata finora applicata solo in alcuni Paesi ex comunisti, pure.
Ma riflettiamo sui motivi per cui è stata utilizzata proprio in quei Paesi. Crollata la cortina di ferro, essi avevano amministrazioni pubbliche deboli, una crisi di legittimità fortissima degli apparati, la necessità di provare a crescere, in condizioni difficili, dando agli individui un forte incentivo a produrre ricchezza. Siamo poi tanto lontani dall’Italia del 4 marzo?