Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  marzo 16 Venerdì calendario

Dai salotti televisivi alla lotta in piazza. Sobchak, la rivale che piace al Cremlino

Germogli verdi che si ostinano a crescere in mezzo al cemento e sparachiodi di latta che cercano di ucciderli sul nascere. Sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven scorrono, allo Stadio Adrenalin di Mosca, le immagini firmate dal regista russo Garri Bardin, un’autorità del cinema sovietico e oggi prestato alla campagna elettorale di Ksenja Sobchak, unica donna candidata nelle elezioni presidenziali (domenica) più prevedibili del 2018. In platea molti ragazzi, qualche babushka che si è incuriosita all’ingresso, agenti dei servizi e bandiere con su scritto «la primavera è vicina».
Ksenja arriva in tuta sul palco, e annuncia la nascita del suo nuovo partito d’opposizione, «il partito del cambiamento». Insieme a lei ex liberali, nuovi attivisti, comunisti riluttanti, veterani smarriti e ciò che resta dell’intellighenzia russa dopo l’ubriacatura da rublo facile (e forte) degli anni Novanta. Dietro di lei – dicono in molti – Vladimir Putin, bisognoso di un’opposizione diversa da quella di Navalny, e di contare quanti sarebbero, poi, questi russi appassionati di democrazia, di eguaglianza, di libero mercato e di diritto internazionale. A giudicare dalla platea dell’Adrenalin non tantissimi, ma allegri sorridenti e gentili, quello sì (che è già un inizio di rivoluzione). «Dobbiamo porre fine a un regime che dura da 18 anni, è l’ora di far sentire la voce di un’altra Russia», dice lei al suo pubblico.
Di Ksenja Sobchak, a Mosca, dicono di tutto. E lo fanno da almeno dieci anni prima che si candidasse per sfidare Vladimir Putin, l’uomo che suo padre, il potente sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak, portò alla guida del Paese e che lei, sin da bambina, considera come un parente stretto, «dyadya», zio. Tra i venti e i trent’anni, Ksenja – classe 1981 – era presenza fissa a ogni evento mondano della Russia degli oligarchi: «La nostra Paris Hilton», l’avevano ribattezzata le riviste patinate. Il grande pubblico televisivo la ricorda per la sua partecipazione a Dom-2, versione russa del Grande Fratello, e più tardi, nei panni di telegiornalista gradita al regime. Poi qualcosa è cambiato: Ksenja è cresciuta, si è sposata, ha avuto un figlio (qualcuno dice sia in attesa del secondo), e si è buttata in politica. Sul momento esatto in cui ha preso la decisione è già fiorita una letteratura apocrifa che viaggia di bocca in bocca, travasando dal jet set al popolo con una fluidità che fa di lei – a dispetto del suo risicato 1,5% di gradimento nei sondaggi pre-elettorali – un personaggio nuovo.
C’è chi dice che avesse finito i soldi, altri che avesse perduto la motivazione ma non l’ambizione, altri ancora che non sapesse bene che fare per restare al centro della scena e che quindi abbia bussato alla porta dello «zio», o forse vi abbia mandato sua madre Ludmila, oggi vedova di Anatoly, ma sempre tra le persone più vicine al presidente russo. Che l’«opposizione Sobchak» sia stata suggerita o comunque autorizzata poco importa (su questo le leggende si incrociano, differiscono, sfumano chi su una tonalità chi su un’altra): oggi ha il volto di Ksenja Sobchak. Anche lei, come la Natasha di «Guerra e Pace», ha cominciato a danzare al ritmo della musica popolare russa, sostituendo i capi firmati con abiti più dimessi, le acconciature laccate con i capelli sciolti oppure raccolti nella treccia tradizionale, e preferendo gli occhiali sul naso alle lenti ogni sera di un colore diverso. In più ci ha messo la voglia di fare politica, in apparenza senza sconti al presidente-zio.
A gennaio scorso è andata in Cecenia per dare il suo sostegno a un militante imprigionato e a rendere omaggio alle giornaliste uccise Anna Politkovskaja e Natalia Estimirova; ha chiesto la liberazione di Navalny, ha difeso la memoria di Boris Nemtsov; sulla ferita ucraina non smette di gettare il sale dell’Occidente, accusando il Cremlino di violazione del diritto internazionale. Quando l’ultranazionalista Zjirinovsky, in tv, l’ha definita una «donna rivoltante», e le ha urlato contro «puttana», Ksenja gli ha rovesciato un bicchiere d’acqua addosso e se n’è andata. Fuori, la aspettava un hashtag nuovo di zecca: #donneinsieme, creato dalla deputata Oksana Puchkina, che ha immediatamente coalizzato migliaia di sostenitori in tutto il Paese, uomini e donne.
Persino Irina Khakhamada, storica candidata (sempre perdente) del partito liberale, ha dichiarato in tv: «Poco importa se è una foglia di fico del Cremlino, avete visto con che coraggio difende le unioni gay e il diritto delle donne a una maggiore emancipazione? È un bulldozer, vedrete, farà saltare tutto». Al massimo fino a domenica.