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 2018  marzo 16 Venerdì calendario

César Aira: «Il premio Nobel? Mi creerebbe solo tanti fastidi»

Temo di essere un falso avanguardista. Il vero distrugge senza pietà e io amo troppo la letteratura del passato per distruggere qualsiasi cosa». César Aira, scrittore argentino amatissimo da Roberto Bolaño e Carlos Fuentes, definito dalla critica internazionale come uno dei segreti meglio custoditi della letteratura sudamericana, cerca una parola che possa abbracciare il suo lavoro. Non è semplice: le sue ottanta e più novelitas non somigliano a nient’altro che a se stesse. Sono il frutto di una immaginazione prodigiosa e di una metodicità che sfiora l’ossessione: ogni giorno, nessuno escluso, Aira si siede in un bar e scrive una pagina. Non la rivede né la corregge. Questo metodo, che lui chiama la fuga hacia adelante (la fuga in avanti), ha come risultato un’opera in costante evoluzione, una biblioteca folle dove trovano spazio i fantasmi dei desaparecidos e i borghesi con la passione per la tassidermia, bambini intossicati da coni gelato e scrittori clonati. L’ultimo tassello di questo progetto narrativo ad approdare in Italia è Il pittore fulminato, scritto nel 2000 e oggi tradotto da Fazi. Il romanzo segue il viaggio latinoamericano del pittore tedesco Johann Moritz Rugendas.

Racconta la sua ostinazione nel voler dipingere la pampa anche dopo essere stato colpito da un fulmine e trascinato da un cavallo.
Non è un romanzo storico, non risponde alle regole di una biografia o di un saggio di arte, anche se contiene tutto questo.
Come è nata l’idea di un romanzo su un pittore semisconosciuto dell’Ottocento?
«Ho avuto qualcosa di più dell’idea leggendo una biografia di Rugendas.
C’era un episodio che somigliava molto a un mio romanzo. Non ho fatto altro che raccontarlo con le mie parole, accentuando alcuni episodi, drammatizzandoli, portandoli nel regno della favola. In un certo senso questo romanzo è un ready- made: l’ho trovato già fatto e ho dovuto firmarlo. Nonostante tutto penso sia il mio romanzo più personale, quello che più parla di me».
Perché?
«Deve esserci stata una ragione se l’ho scelto tra le centinaia che mi capitano ogni giorno. La combinazione di viaggi e pittura è alla base della mia utopia personale».
Rugendas crede che la scrittura
e l’arte non siano due cose separate, ma parte del tutto...
«L’attitudine dell’artista è sempre la stessa, qualunque disciplina pratichi. Letteratura, pittura o musica, si tratta comunque di creare bellezza, una nuova bellezza. Nel mio caso la letteratura e la pittura operano simultaneamente. Anche se non dipingo ho una immaginazione molto visiva e quando scrivo in realtà descrivo immagini e scene della fantasia».
Con che metodo?
«Scrivo poco e molto lentamente, mai più di una pagina al giorno. Ma lo faccio ogni giorno, quindi dopo un anno ho circa trecento pagine, il che per me equivale a tre romanzi. Ecco da dove viene la leggenda che sono follemente prolifico».
Li affida sia a piccolissimi editori, il che rende questi titoli introvabili, sia a multinazionali del libro. Le piace sfidare le logiche del mercato? O il suo è un progetto creativo?
«Mi attribuiscono strategie di mercato a cui non ho mai pensato.
Quando finisco un romanzo lo do a un editore. Cos’altro dovrei fare?
Tenerlo in un cassetto?».
Dal 1975 a oggi ha pubblicato più di ottanta romanzi. Qual è il nucleo della sua opera?
«Il nucleo è il tempo, che non ha nucleo. La mia “opera” – usi le virgolette perché fatico a credere di avere qualcosa di così solenne come un’opera – è il diario della mia vita.
Mentre continuo ad improvvisare storie giorno dopo giorno, i fatti e le sensazioni della mia esperienza entrano in esse».
Se è tutto così personale, com’è
il rapporto con ciò che ha scritto anni fa?
«Pratico quella che viene chiamata “fuga hacia adelante”, la fuga in avanti. Dal momento in cui consegno un libro a un editore non me ne occupo più. È un modo per scrivere sempre come la prima volta, ma con i vantaggi di chi ha imparato il mestiere».
Come si considera? Un autore postmoderno, all’avanguardia, sperimentale...
«Una volta mi piaceva definirmi “sperimentale”, ma ho smesso di farlo quando ho letto una frase, credo di William Burroughs, che diceva: “Sperimentale è un esperimento andato male”. Mi è sembrato molto vero. Se l’esperimento va bene, diventa un classico come Kafka o Borges. Se è ancora sperimentale è perché ha fallito. La parola avanguardia mi piace perché penso che la letteratura sia un’entità storica che deve fare progressi ed evolvere.
Ma temo di essere un falso avanguardista: il vero distrugge senza pietà e io amo troppo la letteratura del passato per distruggere qualsiasi cosa».
La sua inventiva è sfrenata, ma il linguaggio è molto semplice.
«La mia sfrenata immaginazione porta a invenzioni molto barocche e per esporle ho bisogno di un linguaggio il più chiaro possibile. Una invenzione barocca con linguaggio barocco porterebbe una gran confusione. Prendiamo Dalí: per dipingere le sue visioni deliranti aveva bisogno di una tecnica accademica, un disegno preciso e pulito.
I suoi elefanti con zampe di zanzara dipinti con le pennellate degli espressionisti astratti sarebbero incomprensibili».
Oggi gran parte di ciò che si scrive in America Latina ha a che fare con la realtà. Lei è in controtendenza...
«Il romanzo realista dalla fine del XIX secolo è diventato piuttosto noioso.
Penso che la letteratura debba trasfigurarsi, non semplicemente rappresentare. Per quello ci sono i giornali e la televisione».
Il suo nome appare ogni anno nell’elenco dei bookmaker. César Aira è uno scrittore con un profilo da Nobel?
«Se l’Accademia dovesse scegliermi, cosa potrebbe dire? Che sono un bravo scrittore, niente di più. E non hanno mai detto una cosa del genere. Meglio così.».
Meglio?
«Mi creerebbe più problemi che vantaggi. Perderei il mio prezioso anonimato e anche il mio nome perché inizierebbero a chiamarmi “il Nobel”. L’unica ragione per desiderarlo sarebbe dare una gioia ai miei editori: in tutti questi anni con me hanno perso molti soldi».