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 2018  marzo 16 Venerdì calendario

Mi chiamo Renato Fiacchini. Intervista a Renato Zero

Cappello da ferroviere in testa, paletta in mano; l’enorme tabellone sullo sfondo detta i tempi della vita e Renato Zero galleggia tra 61 elementi dell’orchestra, 30 coristi e 7 attori. Tutti insieme per Zerovskij Solo per Amore, lo spettacolo portato in scena la scorsa estate, quest’anno al cinema per tre serate-evento (19, 20, 21 marzo), in 330 sale con la distribuzione Lucky Red: “Lo avevo proposto alla Rai, ma non hanno accettato…”. Con Zero si parte dalle sue canzoni, per viaggiare su binari imprevedibili.
“Certa gente non sa cosa si perde a non vivere un momento di follia” (Il mio momento).
La vera esternazione della follia, quella sana, disinvolta, che ci aiuta a dimenticare guai e problemi quotidiani, è un miraggio; chi riesce a ritagliarsi tali momenti evita pure di pagare l’analista, di vivere un sesso mediocre, massacrato pure da questi social.
“Ci fosse un’altra vita non ci rinuncerei, con quello che ho imparato certo me la godrei” (Ci fosse un’altra vita)
C’è l’ambizione di ripetere la recita, e nell’occasione successiva di cimentarsi nella regia della propria esistenza; mentre in realtà il nostro percorso è diretto da una serie infinita di variabili, di registi: dagli avvocati a Equitalia fino alle bollette del telefono.
Non vuol dire: tornare indietro per cambiare.

Qualche errore lo rifarei, sono formativi, se non li avessi commessi mi sarei privato del godimento successivo, quello di dire: ‘Mi ha permesso di ottenere più forza decisionale’. E senza quella forza sarei caduto in altre fregature.
Tipo?

La sfrontatezza è un errore meraviglioso.
Sfrontatezza senza maleducazione.

Penso a Oscar Wilde che cammina a Piccadilly Circus con aria assorta e giglio in mano.
“Cara, fermarsi è una parola che quando sei di scena tu non vorresti scendere mai più, non obbligarmi tu” (
Cara).

A volte la vita mi ha scrollato, è stata violenta, in altre occasioni si è frapposta tra il mio sogno di musica e la sua realizzazione.
Non solo…

Ho affrontato delle perdite: dei collaboratori a un certo punto non mi hanno più sostenuto, e a volte mi sono demoralizzato (resta in silenzio). Poi quando è morto mio padre (1980) il palcoscenico lo sentivo una punizione per la consapevolezza della sua assenza.
Veniva spesso?

Restava in platea con tutti gli altri spettatori. Per applaudirmi.
Un lutto così si supera, o si impara a conviverci?

Mio padre lo porto sempre in camerino con me, ho accettato l’ipotesi di tenere una sedia libera dedicata a lui; nel 1980 ho pensato di lasciare il microfono e rinunciare a questa vanità…
E poi?

Papà mi ha insegnato a non arrendermi, però mi affidai anche al Chianti classico: non bevevo per ubriacarmi, ma solo perché il vino era simbolicamente legato alla sua espressione contadina.
Come bere con lui.

Poi ho smesso, avevo preso dei chili…
“Cara” è un omaggio a Dalla?

No, però con Lucio ho vissuto delle grandi affinità caratteriali, direi anche psicosomatiche: in fondo eravamo due clown, e nel deserto di essere emarginati dal contesto generale, vedevo in lui una rivalsa, non mi sentivo solo nel percorso estetico e mentale.
Nel 2004 cantava: “L’uomo che tu vuoi non è mai nato, io sono io: il solito Renato”.
Certe volte cercano di attribuirti qualsiasi tipo di soluzione, di connotati diversi; anche se uno è un artista, e quindi un po’ Giano, c’è l’esigenza di una posizione abbastanza stabile nei confronti di noi stessi e gli altri ti devono, o dovrebbero considerare nella naturale rappresentazione.
Renato Zero e Renato Fiacchini.

Come dicevo prima, posso essere un clown o un barbone, magari un principe degli arcobaleni; ma a volte mi piacerebbe essere considerato secondo la mia anagrafe: ci tengo tantissimo che le persone mi vedano come Renato Fiacchini, intimamente resto spettatore di Renato Zero.
Intimamente.
Non voglio andare troppo verso Zero, perderei naturalezza e spontaneità.
“Non ti perdi un sogno e ti lascio un segno ovunque vai” (Aria di settembre).

Nonostante il sole e le spiagge, l’estate è bugiarda, non ascolto mai nessuno dei suoi inviti.
Quindi, l’autunno?

È lì che abita il mio settembre, è morbido, ti prepara all’inverno, ai freddi, ai distacchi nei rapporti.
L’inverno.
Tomba dei sensi, tranne il riscaldamento erotico per via delle temperature basse; utile per thè, chiacchierate e confessioni.
Primavera.

Sono i bambini, il gioco, la tenerezza; è anche l’anziano che tenta il saltino sul prato malgrado l’artrite.
“Sono treni anche i pensieri se vuoi” (Infiniti treni).

I pensieri sono il nostro biglietto aperto: avere la possibilità di sguinzagliarli, di dargli il giorno di libertà, è una forma di preservazione, anticorpo meraviglioso.
Lei detesta i selfie.
Meglio un abbraccio, mica temo la varicella. O una stretta di mano, un sorriso: non voglio restare prigioniero di quel frullatore con l’antenna. Se guarda Zerovskij, vedrà appena due cellulari accesi. Anche questo è amore.