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 2018  febbraio 21 Mercoledì calendario

Via dalla pazza Italia

Una volta c’è la Slovacchia che ti fa pagare meno tasse. Quella dopo la Polonia che ti sgrava dagli impacci burocratici. Quindi la Romania che certo ha aumentato il costo del lavoro ma rispetto al Belpaese resta un Eldorado degli imprenditori. Quanti casi Embraco esistono in Italia? Tanti, tantissimi.
E vanno a ondate. Negli anni ’90 c’è stata la fuga dei gruppi nostrani a Bucarest e dintorni, poi hanno iniziato a tirare la Bulgaria e la Serbia, quindi hanno preso appeal anche la Repubblica Ceca, Varsavia e la Moldavia. Solo per restare nei confini del Vecchio Continente. Perché scorrendo l’elenco, elaborato dalla Fim-Cisl, delle imprese che hanno deciso di lasciare (in toto o parzialmente) l’Italia per sfruttare i vantaggi competitivi d’oltreconfine troviamo l’esempio della Dorel Italia (articoli per la prima infanzia) che nel 2007 ha licenziato 105 dipendenti su 140 per spostarsi in Cina; l’odissea della Eaton che da Massa nel 2010 ha riportato buona parte della produzione negli Stati Uniti; e la parabola della Zoppas che nel 2004 ha dato il benservito a 620 persone per concentrarsi sui siti produttivi del Messico e del Brasile. 
Si chiama delocalizzazione, ma chi ama buttarla sull’inglese parla di offshoring. La sostanza non cambia: si tratta di un’impresa che scappa all’estero perché attratta dal costo del lavoro più basso, dai vantaggi fiscali o magari dalla facilità di licenziare. Nessuno in Italia ha un numero preciso. Ma tutti i dati portano a dire che negli anni centinaia di gruppi hanno abbandonato il Belpaese. Quanti? Uno studio pubblicato sul trimestrale “Inchiesta” da Matteo Gaddi e Nadia Garbellini ci dice che dal 2002 sono 62 le aziende italiane che sono andate via “bruciando” 15 mila lavoratori. Attenzione, però, perché l’elaborazione sui dati Eurofound (Unione Europea) riguarda solo le ristrutturazioni che hanno causato la perdita di almeno 100 posti. In sostanza ci sono dentro i casi della Roland Europe che ha chiuso in Italia con un attivo da un milione e 180 addetti sul lastrico, ma manca la Ditech (porte automatiche per grandi strutture) che se n’è andata in Cina e Repubblica Ceca lasciando a casa 90 persone e pure la Comestero (sistemi di pagamento) che ha ancora 35 dipendenti nel milanese. 
Le colpe? Nostre sicuramente. Perché con chi te la vuoi prendere se resti la lumaca d’Europa (superata solo da Cipro) per la lunghezza delle cause civili e commerciali. Ma anche del sistema (Ue) nel quale operiamo. Perché se devi confrontarti con dei paradisi fiscali la concorrenza è sleale. 
C’è una soluzione? Certo. E anche in questo caso quello che è successo nel torinese con la Embraco può essere preso ad esempio. All’azienda brasiliana, controllata dagli americani della Whirlpool, conviene economicamente spostarsi in Slovacchia perché qui da noi “fabbrica” un bene a basso valore aggiunto: i compressori dei frigoriferi. Ma cosa sarebbe successo se avesse realizzato nei siti italiani un prodotto ad alto contenuto di innovazione che necessita dei “macchinari” legati al 4.0 e di forza lavoro iperspecializzata? Semplice, non si sarebbe spostata e anzi avrebbe benedetto ogni singolo centesimo messo nelle buste paga dei suoi operai. Fantasie? Assolutamente no. Dati di fatto testimoniati dal fenomeno che i soliti amanti dell’inglese definiscono reshoring, insomma la delocalizzazione al contrario. Ce lo insegnano i casi di Argo Tractors (macchine agricole), Safilo (occhiali), Artsana (Chicco per intenderci) e Falconeri (abbigliamento). 
Tutte storie di aziende che erano andate via dall’Italia e hanno deciso di ritornare del Belpaese perché grazie ai robot, alle stampanti 3D e alle intelligenze artificiali raggiungono gli stessi vantaggi che prima ottenevano con la riduzione del costo del lavoro. E quel punto a cosa serve scappare?