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 2018  febbraio 21 Mercoledì calendario

APPUNTI SULLA SIRIA PER GAZZETTA

AGI.IT –I siriani hanno deciso di riprendersi Afrin​: le forze filo-Assad sono entrate nell’enclave curda per sostenere le Unità di difesa del popolo (Ypg) e respingere l’offensiva turca lanciata un mese fa.Ankara ha risposto con un bombardamento di avvertimento sulla strada percorsa dalle truppe lealiste. E intanto il regime siriano continua a martellare Ghouta Est, l’ultima roccaforte dei ribelli, a est di Damasco. È stato un bagno di sangue: sono almeno 200 i civili uccisi negli ultimi due giorni, tra loro 60 bambini.È caduto nel vuoto il monito del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che in Parlamento aveva annunciato "l’assedio alla città di Afrin per non permettere ai curdi di negoziare alcuna alleanza". La decisione di Bashar al-Assad di intervenire pone ai ferri corti Siria e Turchia e potrebbe portare al deterioramento dei rapporti già incrinati fra Ankara e Mosca, alleato chiave di Damasco. 
L’operazione "ramoscello d’ulivo"L’offensiva turca ad Afrin è cominciata un mese fa: il 20 gennaio Ankara ha lanciato un’operazione aerea e di terra a sostegno dei ribelli siriani contro le Unità di difesa del popolo curdo (Ypg) nella regione nel nord della Siria. La Turchia considera l’Ypg come una propaggine siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che è stato dichiarato fuorilegge nel 1984. Il presidente Erdogan, davanti al Parlamento, ha mostrato ottimismo e ha dichiarato che l’operazione "Ramoscello d’ulivo" va "come previsto", avendo occupato "300 chilometri quadri nella regione". Tuttavia molti analisti giudicano molto lenta e faticosa l’avanzata di Ankara.Secondo il monitoraggio dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, nel corso dell’ultimo mese, 238 combattenti - tra cui soldati turchi e ribelli siriani - sono stati uccisi, insieme a 197 combattenti Ypg e 94 civili. Ankara ha sempre negato la presenza di vittime civili; e Erdogan ha giustificato la lentezza dell’offensiva proprio "per non mettere in pericolo i civili". L’intervento militare di Ankara sta sottoponendo a un insostenibile sforzo però i rapporti già sfibrati non solo con la Russia, ma anche con gli Stati Uniti perché le forze dell’Ypg sono state determinanti nell’aiuto sul terreno alla coalizione che ha sconfitto l’Isis.Oggi però, dopo gli avvertimenti lanciati nei giorni scorsi, le forze filo-governative siriane sono entrate ad Afrin per contrastare l’offensiva turca. La Turchia ha risposto con alcuni bombardamenti lungo la strada percorsa dal convoglio giunto da Damasco. Erdogan aveva comunicato al collega russo Vladimir Putin che qualsiasi sostegno dal regime siriano all’Ypg avrebbe avuto "conseguenze" e l’assedio rientrerebbe nella strategia preventiva di Ankara. "Nei prossimi giorni il centro di Afrin sarà rapidamente circondato, il sostegno dall’esterno sarà interrotto e il gruppo terroristico (Ypg) non avrà piu’ l’opportunità di negoziare con nessuno".   
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GIAMPAOLO CADALANU, REPUBBLICA.IT –
Lo spazio per un intervento è sempre più ridotto: oggi l’artiglieria turca ha costretto un convoglio di rinforzi diretto verso Afrin a battere in ritirata, mentre Ankara continua a usare toni esasperati, minacciando “severe conseguenze” se i filo-governativi si schiereranno a fianco dei miliziani curdi Ypg. Ma sempre più mezzi e uomini dei gruppi sciiti filo-governativi stanno arrivando alla città, con l’intenzione di sostenere i curdi e contrastare l’avanzata turca.
Per ora non si parla di soldati governativi, ma è chiaro che le milizie sciite – che siano inquadrate nei corpi iracheni di Hashd el Shaabi o addestrate da Hezbollah, poco importa – sono solo un primo passo. L’ingresso dei turchi, con bombardieri, carri armati e truppe di terra, non può essere accettabile per Damasco e difficilmente Bashar Assad potrà mantenere il controllo del Paese senza far intervenire i militari governativi.

Nei prossimi giorni i rappresentanti di Russia e Iran arriveranno a Istanbul per cercare una soluzione concordata alla crisi, che sia accettabile per Damasco. Ma Mosca, per bocca di Sergheij Lavrov, ha già fatto sapere che la sovranità e l’integrità territoriale della Siria non si toccano. Il messaggio del ministro degli Esteri conserva una sfumatura di ambiguità: si parla di sovranità guardando all’intervento turco, ma l’accenno all’integrità potrebbe essere invece rivolto ai curdi, oltre che ovviamente al loro sponsor mai divenuto ufficiale, gli americani.

In altre parole, quello che verrà dall’appuntamento in Turchia potrebbe essere un primo passo per un raffreddamento della crisi, ma non è detto che le soluzioni ipotizzate siano gradite a tutte le parti. A sentire le fonti turche, il Cremlino è comunque molto “comprensivo” con la posizione di Ankara, tanto che sarebbe stato proprio un intervento di Putin a dissuadere Assad dall’invio, almeno per ora, delle truppe governative. Ne potrebbe essere una conferma l’offensiva delle truppe siriane governative contro Ghouta: il governo di Damasco può essere tentato di cogliere la “sosta” nell’impegno su Afrin per chiudere i conti con la sacca ribelle alla periferia della capitale. E i modi particolarmente sanguinosi con cui l’aviazione di Assad ricerca questo obiettivo, sembrano confermarlo.
Ma ogni possibile “frenata” richiesta dai russi a Damasco non può che avere durata ed estensione limitate: per evitare un confronto reale fra Siria e Turchia, con concrete possibilità di escalation, le uniche soluzioni devono essere concordate. E in tempi rapidi.

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ANTEPRIMA –
 Erdogan non vuole curdi vicino a casa sua, per questo ha lanciato l’operazione «Ramoscello d’olivo», cioè ha attaccato l’Afrin in Siria, dove si trovano i curdi siriani. I curdi siriani hanno stretti rapporti con i curdi turchi, la creazione di uno stato curdo-siriano renderebbe più probabile la nascita di uno stato curdo-turco, o di uno stato curdo tout-court (i curdi sono sparpagliati tra Turchia, Siria, Iraq e Iran). Ma, poiché l’Afrin è comunque in Siria, il presidente siriano Assad s’è deciso a difendere quel pezzo di territorio, in definitiva suo, lasciando che milizie sciite a lui fedeli andassero a contrastare i carri armati turchi. Uno scontro diretto tra turchi e siriani è sempre più probabile, con complicazioni e confusioni notevoli (i curdi sono amici degli americani, Erdogan è sostenuto da Teheran ed è in sintonia con Putin, Assad ed Erdogan fino a ieri erano alleati, ecc.). Intanto Assad ha creduto di poter approfittare della distrazione del mondo per la crisi di Afrin e ha bombardato Ghouda, periferia di Damasco, dove sono attestate le milizie che fin dal 2012 tentano di rovesciarlo. I civili uccisi sono al momento 194

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ROBERTO BONGIORNI, IL SOLE 24 ORE –
Sempre più isolato, apparentemente incurante del baratro su cui si sta affacciando, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan va dritto per la sua strada. Quella che dovrebbe portare alla conquista di Afrin, il cantone della Siria settentrionale controllato dalle Ypg, le milizie curdo-siriane considerate dal Governo di Ankara terroristi al pari del Pkk. 
Erdogan non vuole sentire ragioni: non ha voluto seguire l’appello alla moderazione della Casa Bianca, minacciando perfino di proseguire la sua offensiva anche nelle zone dove sono presenti i militari americani,come a Manjib. Non ha nemmeno ascoltato l’invito al dialogo con Damasco espresso dal Cremlino, con cui il presidente turco coltiva rapporti ben più amichevoli. Tantomeno si è fatto intimorire dall’entrata in campo delle truppe fedeli al regime siriano. E ora la sua campagna militare finalizzata a scacciare le Ypg dalla Siria settentrionale rischia di aprire un confronto militare diretto con Damasco.
Per dissipare ogni dubbio Erdogan ha ribadito ieri l’esistenza di un accordo con il presidente russo Vladimir Putin e quello iraniano Hassan Rouhani per impedire che Damasco sostenga le Ypg.Ma l’assenza di conferme da parte degli altri attori coinvolti solleva dei dubbi.
La guerra di Afrin somiglia a una complessa partita di scacchi. E questa volta la leadership delle Ypg ha colto di sorpresa Ankara con un’iniziativa inattesa, potenzialmente capace di farli uscire da una situazione critica a costo di perdere anche un pezzo. La loro “mossa del cavallo” è stata un presunto accordo con il regime siriano – in teoria loro nemico – per assicurarsi il suo sostegno militare contro l’invasione turca. In cambio le Ypg avrebbero ceduto il controllo dell’enclave, o dei valichi di frontiera, alle forze lealiste. 
Una mossa che ha scatenato l’ira del presidente turco, passato dalle minacce ai fatti. Il giorno in cui le milizie fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad sono entrate nell’enclave curda di Afrin, l’aviazione di Ankara è ricorsa all’artiglieria pesante con colpidi avvertimento. Le versioni dei due belligeranti divergono. Se per i media siriani, e per le Ypg, le milizie filo-Assad sono penetrate ad Afrin (la Tv di Stato ha trasmesso anche le immagini), per Erdogan gruppi di terroristi che hanno agito in modo indipendente hanno solo provato a entrarci, ma sono stati subito respinti. «Per noi non è possibile permettere questo. Pagheranno un prezzo pesante», ha tuonato Erdogan, aggiungendo benzina sul fuoco: «Nei prossimi giorni, e in modo molto rapido, si svolgerà l’assedio al centro urbano di Afrin».
I tempi della diplomazia sono stretti.Putin è impegnato in una mediazione complessa: non vuole rinunciare alle relazioni sempre più strette con Erdogan, utili in chiave anti-americana, ma al contempo è deciso a sostenere al-Assad, il quale però vede l’offensiva turca su Afrin come una violazione della sovranità territoriale della Siria. Se Erdogan non vuole sentire ragioni, Assad non retrocede di un millimetro. Sicuro della vittoria, è deciso a riappropriarsi del territorio perso durante gli anni più difficili della guerra a cominciare dal Goutha,il territorio alla periferia orientale di Damasco controllato dai ribelli siriani contro cui domenica il regime ha lanciato un’offensiva durissima. In tre giorni i bombardamenti avrebbero ucciso quasi 200 civili, tra cui diversi bambini. 
Diversa, e intricata, la partita che si sta giocando ad Afrin. Putin è alla ricerca di una soluzione in cui tutti appaiano vincitori, o almeno non pensino di aver perso. Se non ci riuscisse, il fronte Iran- Russia-Turchia per stabilizzare la Siria andrebbe in pezzi. E rimescolerebbe le carte in un conflitto che rischia di trascinarsi a lungo. 

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CADALANU, LA REPUBBLICA – DOMANDE E RISPOSTE – 

• Perché le truppe turche sono entrate dentro i confini siriani e attaccano Afrin?
Ankara ha lanciato l’operazione “Ramoscello d’olivo” con il pretesto di combattere il terrorismo e l’intenzione reale di bloccare ogni progetto di stato curdo. Nel mirino c’è il Rojava, la regione siriana, de facto autonoma, fondata nel 2012 dai miliziani curdi delle Ypg.

• Perché Ankara attacca le Ypg?ù
Le unità di protezione popolare curde Ypg hanno stretti rapporti con il Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, fuorilegge in Turchia.

• Damasco ha effettivamente inviato le sue truppe nella zona curda?
Per ora non c’è conferma che i rinforzi arrivati ad Afrin siano militari governativi e non, come dicono i turchi, soltanto miliziani sciiti. Ma Bashar Assad difficilmente potrà tollerare l’intervento armato dei turchi sul territorio nazionale.

• Che ruolo hanno gli Usa?
In cerca di un nuovo radicamento nella regione, il Pentagono ha aperto dieci basi militari nel Rojava, con un sostegno di fatto, anche senza passi ufficiali. Il presidente turco Erdogan ha chiesto ai soldati Usa di lasciare la zona per evitare incidenti, ma difficilmente il suo monito avrà successo.

• Chi può evitare una escalation fra Turchia e Siria?
Al momento la possibilità di una mediazione è nelle mani di Vladimir Putin, alleato di Assad e in buoni rapporti con Erdogan. La Russia sta consolidando il suo ruolo nella zona e ha tutto l’interesse a evitare uno scontro.

• Perché Erdogan adotta una linea così aggressiva?
Uno Stato curdo sarebbe un esempio per i curdi di Turchia, minacciando l’integrità nazionale. Ma per Erdogan il “nemico esterno” serve a evitare di affrontare i problemi interni, con il Paese diviso e la repressione senza fine. La sua aggressività dipende anche dalla posizione ricattatoria verso l’Europa, che conta sulla Turchia per fermare i migranti.

• Che cosa succede invece a Ghouta?
Assad approfitta dell’attenzione su Afrin per chiudere i conti con l’enclave ribelle alla periferia di Damasco, attraverso pesanti bombardamenti aerei. I ribelli tengono duro e a Ginevra si dicono disposti a liberarsi della componente qaedista se questo potrà far finire gli scontri.

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MARCO VENTURA, IL MESSAGGERO –

In Siria la guerra civile rischia di trasformarsi in vera e propria guerra fra Stati. Con le potenze regionali diversamente affiancate da Russia, Stati Uniti ed europei. Raramente si è stati così vicini a un conflitto generale in Medio Oriente, che potrebbe coinvolgere Israele e Iran. Questo lo scenario che emerge, lungamente annunciato, nelle ultime ore di battaglia sulla strada di Afrin, caposaldo curdo-siriano a ridosso della frontiera con la Turchia. Sia le milizie curde Ypg, sia i rinforzi da Damasco sono sotto attacco dei turchi che martellano valichi e strade nel tentativo di spezzare la resistenza curda e circondare Afrin, eliminare le Ypg e bonificare la fascia frontaliera rompendo il cordone con i curdi turchi del Pkk, il partito di Ocalan fuorilegge dal 1984. 
LE POSIZIONI L’offensiva turca Ramo d’ulivo, scattata il 20 gennaio, è considerata da Damasco e dalla Russia un attentato ai confini della Siria. Le parole più pesanti quelle pronunciate dal ministro degli Esteri francese, Jean Yves Le Drian, ieri all’Assemblea di Parigi prima di partire «nei prossimi giorni» per Teheran e Mosca, alleate sul fronte siriano: «Il peggio in Siria è davanti a noi, andiamo verso una catastrofe umanitaria». Monito nel quale riecheggiano le battaglie nelle aree contese. Le forze leali a Damasco e Assad, militarmente appoggiate dai russi a terra e dal cielo, bombardano l’enclave ribelle di Goutha, a est di Damasco, mietendo vittime fra i civili. Ma la situazione più esplosiva, miccia potenziale di un conflitto non più da guerra civile ma fra nazioni, è quella di Afrin e Manbij, nord della Siria. Qui si scontrano plasticamente gli interessi di Usa, Russia e Turchia, mentre sul terreno si combattono turchi, curdi, lealisti e ribelli siriani, jihadisti, sotto gli occhi dei consiglieri militari russi e americani. 
L’attacco, ordinato dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan, mira a tutelare quello che Ankara considera un interesse vitale e strategico di difesa nazionale, stroncare la minaccia curda. Ma russi e americani sostengono i curdi, non foss’altro perché decisivi nella vittoriosa guerra al Califfato. A riprova della gravità della situazione, il presidente russo Putin ha fatto sapere tramite il suo portavoce, Dmitrij Peskov, di avere affrontato la crisi di Afrin presiedendo il Consiglio di sicurezza nazionale. Addirittura come primo argomento all’ordine del giorno rispetto all’Ucraina. E fra Putin e Erdogan sono in corso colloqui telefonici per tenere sotto controllo la situazione. 
IL MESSAGGIO Il leader turco ha voluto comunicare a Putin di non accettare, ha poi detto in pubblico, «altri passi sbagliati» come l’invio ieri da Damasco di colonne militari di rinforzo alle Ypg curde, pena «un prezzo alto». Afrin - dice Erdogan - sarà assediata dall’esercito turco «per non permettere ai curdi di negoziare alcuna alleanza». 
A sua volta il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, avverte che lo scontro «dev’essere risolto nel quadro dell’integrità territoriale dello Stato, in questo caso la Repubblica araba di Siria». Si può comprendere, per Mosca, la preoccupazione dei turchi, ma vanno anche riconosciute le «legittime aspettative dei curdi», evitando che qualcuno soffi sul fuoco per «estendere il caos nella regione». Per Lavrov l’unica via resta quella politica: «dialogo diretto con il governo siriano». No alla soluzione militare. 
L’ALLEATO Sullo sfondo, l’ansia degli americani e degli europei per i quali la Turchia è prima di tutto un pilastro della Nato (di qui il braccio di ferro perché Ankara si armi con sistemi europei e non russi) e l’attrito sul terreno con gli americani pro-curdi a Manbij non è solo fonte d’imbarazzo ma di inquietudine. Sullo sfondo, ancora, l’azione costante, capillare dell’Iran alleato in questa fase di Mosca e Damasco, e sempre più considerato una minaccia da Israele. Infine, la stonatura della resiliente rete di Al Qaeda il cui portavoce, Ayman al-Zawahiri, fa appello all’unità dei combattenti jihadisti e ai musulmani perché si preparino a una guerra «lunga decenni». 
Marco Ventura

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LA BAMBINA CON IL PIGIAMA ROSA - LASTAMPA.IT –

«Questo è come il regime ha svegliato stamattina questa bambina in Hamorya, distruggendo la facciata di casa sua. Nel suo pigiama, è stata tratta in salvo da un elmetto bianco 5 civili sono morti in questo attacco».  

La foto della bambina con il pigiama rosa è iniziata a circolare questa notte, messa su Twitter con questo messaggio da “The white helmets”, gli elmetti bianchi, un’associazione di 3.300 volontari dell’organizzazione umanitaria Difesa civile siriana. La foto è stata scattata vicino a Ghouta, l’enclave dei ribelli dove in questi giorni le forze di Assad e dei suoi alleati stanno concentrando numerosi bombardamenti aerei. L’attacco ha causato decine di vittime, soprattutto civili, attirando attenzioni e critiche da tutta la comunità internazionale.  

Rispetto alle altre fotografie scattate in questi giorni nella periferia di Damasco, alcune violente e molte con protagoniste bambini feriti, questa colpisce ancora di più. La bambina in pigiama rosa, una ragazzina tra gli 8 e i 10 anni, con le ciabatte grandi, probabilmente del padre o del fratello, ci danno l’idea di una normalità improvvisamente negata. Come se tutto, prima del bombardamento, fosse in ordine e non ci fosse una guerra in corso da sei anni, quasi quanti la sua età. Ci mette di fronte all’innocenza dei bambini, che prescinde la geografia e la storia del conflitto. E ci scatena mille dubbi e domande. Che nome ha questa bimba? Cosa faceva la sera prima? Quando ha messo per la prima volta questo pigiama, con i disegni di cuori e personaggi dei cartoni? Ma, soprattutto, dove finirà adesso, dopo il bombardamento: in salvo o ancora al pericolo?  


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GIORDANO STABILE, LA STAMPA –

La periferia di Damasco martellata dall’aviazione governativa, con centinaia di vittime, mentre i mortai dei ribelli colpiscono i quartieri dei lealisti. La Turchia che interviene nel Nord e si scontra con le milizie sciite alleate di Damasco e i guerriglieri curdi, e intanto i gruppi sostenuti da Ankara contendono agli jihadisti eredi di Al-Qaeda la città di Idlib. La Siria del febbraio 2018 assomiglia molto a quella del 2013. Potenze regionali che si sfidano con i loro eserciti per procura, i civili stretti in mezzo, in ostaggio e massacrati. 

Come nel 2013 i duellanti più accaniti, spinti da un’antipatia personale insuperabile, sono Bashar al-Assad e Recep Tayyip Erdogan. Nell’enclave curda di Afrin sembra essere arrivata la resa dei conti, a lungo rimandata.
Assad è riuscito a stoppare le ambizioni del leader turco sul Nord della Siria, e in particolare su Aleppo, con l’aiuto prima delle milizie sciite inviate dall’Iran, poi con l’intervento diretto dei russi. Ma la mossa vincente l’aveva decisa, da solo, alla fine del 2012, quando aveva ritirato le sue truppe dai territori curdi e «appaltato» ai guerriglieri dello Ypg la difesa dei confini contro i gruppi jihadisti.
I curdi hanno difeso Afrin, ma anche Kobane, Hasakah, Qamishlo, e alcuni quartieri della stessa Aleppo. Solo l’irruzione devastante dell’Isis, nel 2014, li aveva messi con le spalle al muro, ma poi erano arrivati i raid e le truppe speciali americane a salvarli. L’alleanza con gli americani non ha però precluso lo Ypg da accordi locali con Damasco. Assad si teneva la carta curda nella manica e ha deciso di giocarla ora, anche contro il consiglio di Vladimir Putin, che ritiene prematuro un confronto aperto con la Turchia. Ma il raiss si sente sicuro dell’appoggio dei Pasdaran e vuole rischiare.
I rapporti di forza sul terreno sono diversi dal 2013. Il regime allora controllava solo un quinto della Siria e i proiettili dei mortai dei ribelli cadevano nel giardino del palazzo presidenziale. Oggi Assad ha riconquistato i due terzi del territorio. Erdogan lo ha accusato, persino dopo gli accordi di Soci con la Russia e l’Iran, di aver «le mani sporche di sangue» e «mezzo milione di morti sulla coscienza».
L’odio di Assad per il leader turco ha radici più profonde, nel nazionalismo siriano che è stato anti-turco prima ancora che anti-francese, nella sua visione laica della Siria, con un ruolo guida per le minoranze, opposta all’orgoglio sunnita della Turchia neo-ottomana.
Sono due mondi inconciliabili che neppure Putin può tenere assieme. Per sopravvivere, però, Assad ha dovuto costruire dietro la facciata laica del regime un’armata di milizie settarie. Ha dovuto manovrare le minoranze etnico-religiose, quella sciita, la cristiana, ora quella curda, contro il nemico comune, l’estremismo sunnita alimentato da Turchia e Arabia Saudita. L’azzardo di Afrin è stato deciso su pressione delle milizie sciite, le stesse che per assurdo si sono scontrate con i curdi nella regione di Deir ez-Zour. L’Iran sembra spingere sull’acceleratore, per superare persino la Russia nell’influenza sulla Mesopotamia.
Ma anche la Turchia di oggi è un’altra cosa rispetto al 2013. Erdogan è riuscito, dopo il fallito golpe del 2016, a imporre un regime presidenziale, ha accentrato il potere nelle sue mani, annichilito i nemici interni. Il prezzo però è una società esausta per le purghe e i processi che coinvolgono centinaia di migliaia di persone e hanno indebolito il corpo ufficiali delle forze armate, soprattutto l’aviazione.
I suoi alleati in Siria sono divisi e hanno perso l’aura di «combattenti per la libertà» che avevano nel 2013. Ma ad Afrin Erdogan non può perdere la faccia. Come Assad si gioca il tutto per tutto.


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IL RUOLO DI PUTIN – ROSALBA CASTELLETTI, LA REPUBBLICA –

Quando lo scorso dicembre Vladimir Putin ha annunciato la fine dell’intervento russo a sostegno di Bashar al-Assad, pensava di essere riuscito laddove l’Occidente aveva fallito: pacificare la Siria. Per di più, ad un costo relativamente basso: il dispiegamento di poche decine di aerei da combattimento e di poco più di 4mila uomini, a fronte di 46 perdite ufficiali di vite umane. Poche settimane dopo, la sua rivendicazione suona più che mai prematura. La conferenza di Sochi è partita azzoppata. Ad aprile ci sarà un nuovo incontro con Erdogan e Rouhani ma intanto la Turchia ha lanciato un attacco contro i curdi e ha finito con lo scontrarsi con lo stesso regime. Le Forze democratiche siriane stanno allargando le loro aree di influenza nell’Est. C’è stato lo scontro diretto tra Iran e Israele. E infine, a un mese dalle presidenziali, decine di connazionali, al soldo di una compagnia privata, sono stati uccisi. Finora Putin era riuscito a conciliare gli interessi opposti dei suoi alleati. Se, dopo aver vinto la guerra, non vuole perdere la pace, ora però deve iniziare a fare delle scelte e a dettare le regole. In gioco c’è il ruolo di mediatore su cui ha investito intervenendo in Siria. E la stabilizzazione di un Paese che ha già versato troppo sangue.


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IL RUOLO DI TRUMP – ALBERTO FLORES D’ARCAIS, LA REPUBBLICA –


Nel dramma siriano gli Stati Uniti appaiono ancora una volta assenti. Nonostante le recenti promesse fatte ai curdi e gli interventi dei caccia Usa contro l’esercito russo-siriano, il ruolo della superpotenza nel conflitto resta marginale. Nè il Pentagono, né la diplomazia sono oggi in grado di bloccare l’offensiva di Erdogan, non hanno la forza per fermare i massacri di Assad, restano timorosi di fronte alla strategia del Cremlino. Contano poco o nulla, mentre il futuro della sanguinosa guerra civile viene deciso a tavolino tra Mosca, Ankara e Teheran. Una situazione in cui la Casa Bianca di Trump ha una colpa relativa. Il disimpegno in Siria risale ai tempi di Obama (la famosa ‘linea rossa’ che Assad non avrebbe dovuto superare e che ha ripetutamente varcato senza che l’ex presidente gli facesse pagare alcun prezzo), che ha lasciato mano libera a Putin, rendendo la Russia padrona del destino di Assad. Nonostante la vocazione all’isolazionismo, l’Amministrazione Trump ha tentato di rientrare in gioco, spinta soprattutto dal Pentagono. Per ora i militari Usa restano in Siria. Washington cerca di far entrare in gioco l’Arabia Saudita e affida ad Israele il pallino di eventuali iniziative militari. Troppo poco per la prima superpotenza mondiale.


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PAOLO GALIMBERTI, LA REPUBBLICA –


C’è davvero il rischio che Damasco diventi la Sarajevo del secolo Duemila, la miccia di un conflitto che si allarga per cerchi concentrici fino a diventare globale? Non è più una domanda astratta o retorica. Ma un quesito di un drammatico realismo. La guerra civile siriana, che dura ormai da sette anni, ha risucchiato in un’escalation inesorabile una serie di attori regionali e internazionali, che sembrano incapaci di districarsi da una palude in cui affondano ogni giorno di più.Elenchiamo, in ordine sparso, i fatti che sono accaduti nelle ultime settimane. Un caccia F- 16 israeliano è stato abbattuto dalla contraerea siriana mentre tornava da un raid di rappresaglia, dopo che un drone iraniano lanciato dalla Siria era stato distrutto nel cielo di Israele. Un aereo russo è stato abbattuto da jihadisti vicino a Idlib. Un elicottero turco è stato distrutto dai curdi siriani, sostenuti dagli Stati Uniti ma sotto attacco da parte di un altro Paese membro della Nato, cioè la Turchia. Paramilitari russi sono stati uccisi dall’aviazione americana mentre cercavano di prendere il controllo di un giacimento petrolifero: ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha confermato che i «cittadini russi o dell’ex Urss» uccisi o feriti sono «diverse decine», dopo che in un primo momento le fonti ufficiali russe avevano parlato di cinque morti e il Pentagono aveva alzato la cifra «fino a 200».Intanto l’aviazione di Bashar al-Assad continua a martellare Ghouta, l’enclave vicino a Damasco, in mano ai ribelli e sotto assedio da cinque anni, dove negli ultimi due giorni ci sono stati quasi 250 morti di cui almeno 50 bambini. Ghouta sta diventando una seconda Aleppo, la cui caduta nel 2016 sembrò segnare una svolta nella guerra civile siriana. Per completare il quadro, il presidente turco Erdogan ha annunciato l’attacco finale ad Afrin per sottrarla al controllo delle milizie curde dell’Ypg, che avrebbero stretto un accordo con l’esercito governativo siriano, pronto a una controffensiva per aiutare i curdi a difendersi dai carri armati turchi.Tutti, in questa spirale senza fine, sembrano prigionieri di se stessi, dei loro odi e delle loro ambizioni, oltre che delle loro debolezze. Assad, resuscitato dai russi e dagli iraniani, vuole riconquistare più terreno possibile in vista di un eventuale, e sempre più remoto, negoziato di pace, sostenuto nella sua feroce determinazione dal cinismo di Mosca, che giustifica il massacro di civili a Ghouta, così come fece ad Aleppo, con la ragion di Stato. Erdogan, ossessionato dall’ipotesi di uno Stato curdo così come lo è dai veri o presunti seguaci di Gulen condannati al carcere da una magistratura servile, è pronto a sfidare gli Stati Uniti e a mettersi di nuovo in rotta di collisione con Putin pur di allontanare la minaccia curda dai suoi confini.Il presidente russo sembrava poter essere l’arbitro del conflitto, dopo i successi dell’intervento militare a sostegno di Assad iniziato nel 2015. L’unico sponsor credibile per un negoziato di pace tenuto conto dei buoni rapporti di Mosca con tutti gli attori regionali: l’Iran, la Siria, la Turchia e anche Israele. Ma la conferenza di Sochi, il mese scorso, è stata un flop totale, disertata dall’opposizione e snobbata dai rappresentanti di Damasco, che hanno respinto una proposta delle Nazioni Unite e della stessa Russia per una nuova Costituzione. Gli altri due co-sponsor della conferenza, Iran e Turchia, sono arrivati ai ferri corti tra loro dopo che le milizie filo-iraniane hanno bombardato un convoglio turco in Siria, con il tacito consenso dei russi. Ma Putin, in un anno elettorale, deve fare i conti anche con un’opinione pubblica interna, che dopo la tragica esperienza in Afghanistan è estremamente riluttante verso gli impegni militari all’estero: secondo un recente sondaggio meno di un terzo degli intervistati si è detto a favore. Le notizie di queste ultime ore sui mercenari russi morti in Siria ( che tra l’altro sarebbero dei “ contractors” di un’agenzia partecipata da Evgenyij Prigozhin, il “ cuoco di Putin” implicato anche nel Russiagate) possono aumentare il malumore dei russi sull’intervento nel Paese. Putin non rischia certo di perdere l’elezione presidenziale. Ma è ossessionato dall’astensionismo: meno del 70 per cento dei votanti sarebbe una soglia considerata una sconfitta dal Cremlino. E le cattive notizie non favoriscono l’afflusso alle urne.Ma se Mosca non ride, Washington piange. L’insipienza internazionale di Trump e, purtroppo, anche di molti suoi collaboratori, a cominciare dal segretario di Stato Tillerson, ha reso ancora più irreversibili l’impotenza militare e l’inerzia diplomatica che la miopia di Obama avevano già creato, focalizzando tutta la strategia americana in Siria soltanto sulla lotta al cosiddetto Stato islamico.In questa ragnatela di impotenza e di cinismo c’è l’incognita gigantesca di Israele. Che finora ha evitato di intervenire direttamente in Siria, anche se dal 2013 ha condotto più di cento attacchi aerei contro postazioni degli Hezbollah. Ma il reperto del drone distrutto, che Netanyahu ha teatralmente mostrato alla conferenza di Monaco chiamando in causa il ministro degli Esteri di Teheran, è servito a lanciare un messaggio preciso, tracciando una linea rossa nella geopolitica del conflitto. Il premier israeliano, che si sente spalleggiato in questo da Usa e Arabia Saudita, non potrà mai tollerare che la guerra in Siria, con i giochi incrociati tra Teheran, Damasco, Mosca e gli Hezbollah, sia l’occasione per creare una sorta di ponte terrestre tra l’Iran e il Mediterraneo.Se questa linea rossa venisse superata circoscrivere la guerra civile siriana diventerebbe impossibile. E allora sì che Damasco potrebbe essere la Sarajevo del nostro secolo.



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FRANCO VENTURINI, CORRIERE DELLA SERA –

L’ inaudita strage siriana che dal 2011 ha fatto mezzo milione di morti e sei milioni di profughi, non si era conclusa nello scorso ottobre con la caduta di Raqqa e la definitiva sconfitta dei tagliagole dell’Isis? A scuotere i troppo distratti e gli inguaribili ottimisti ha pensato ieri Bashar Assad, con la sua abituale ferocia. Su Ghouta Est, un agglomerato di 400 mila anime che è l’ultima roccaforte degli islamisti anti regime nella vicinanza di Damasco, sono piovuti centinaia di razzi, barili esplosivi, colpi di mortaio, cannonate, bombe d’aereo. Secondo stime prudenti i morti civili sono 190, più di 800 i feriti, e come sempre nella mattanza siriana hanno pagato con la vita soprattutto i bambini. 

Si pensa che Assad abbia deciso di liquidare la spina nel fianco di Ghouta facendo seguire ai bombardamenti un attacco di terra. L’Onu protesta, il mediatore Staffan de Mistura dice che siamo alla vigilia di una «seconda Aleppo». Ma per quanto gli eventi di Ghouta Est suscitino indignazione e pietà, anche noi abbiamo il dovere di non essere distratti. E dobbiamo capire che la guerra siriana, lungi dal concludersi con la vittoria sull’Isis, si è moltiplicata per sei. In Siria c’è la guerra di Bashar Assad, quella che ieri si è vista a Ghouta Est. Il presidente salvato da Putin vuole finirla con i ribelli, vuole evitare una spartizione del Paese, e soprattutto vuole rimanere al potere. 

P er esempio vincendo elezioni-farsa, che metterebbero in imbarazzo gli americani e i loro alleati. Bashar cerca anche di mostrarsi più autonomo da Mosca, ma senza il suo appoggio militare e politico rischierebbe nuovamente di cadere. In Siria c’è la guerra di Erdogan. Le forze turche assediano l’enclave curda di Afrin, e con la mediazione di Putin avrebbero evitato (per ora) uno scontro con reparti siriani mandati da Assad a proteggere i confini. Erdogan teme che i curdi siriani (Ypg) si uniscano ai curdi turchi del Pkk, e vuole «ripulire» una zona di sicurezza profonda 30 chilometri lungo la frontiera. Già, ma a Manbij, che teoricamente dovrebbe essere il prossimo obbiettivo dell’offensiva turca, ci sono gli americani, istruttori e alleati dei curdi. Erdogan dice «andatevene» , i militari Usa avvertono «resteremo». E così potrebbe esserci uno scontro armato tra due alleati Nato, il secondo della storia dopo quello tra greci e turchi per Cipro. Chi cederà, Ankara o Washington? Intanto Putin sta alla finestra e se la ride. In Siria c’è la guerra di Putin. Lui ha salvato Assad quando stava per soccombere, lui ha mutato gli equilibri della guerra, lui è stato descritto come l’unico vero vincitore del conflitto, ma ora il capo del Cremlino non sa come uscirne. Ha provato a impostare un «suo» negoziato di pace contando sull’alleanza Russia-Iran-Turchia , ma il tentativo è fallito. Ha inventato le de-escalation zones (Ghouta Est è grottescamente una di queste), e Assad gli ha mandato all’aria il gioco. Gode nel veder e che turchi e americani rischiano di spararsi, ma come potrà rispettare l’annunciato ritiro alla vigilia delle elezioni del 18 marzo prossimo? Lui sa che vincerà, ma sa anche che i russi sono stanchi di guerra, soprattutto dopo che «diverse dozzine» di cittadini russi e ex-sovietici sono stati uccisi da un attacco aereo della coalizione guidata dagli Usa. In Siria c’è la guerra di Trump. Troppo a lungo priva di una strategia, l’America raccoglie oggi i dividendi di uno scarso impegno. Tiene sul terreno i suoi duemila soldati (500 un anno fa) per prevenire un ritorno dell’Isis. E per non ripetere il solito «errore di Obama», che sbagliò davvero ritirandosi troppo bruscamente dall’Iraq. Erdogan è un problema grosso. Ma intanto si può lavorare contro l’Iran, obbiettivo preferito dell’Amministrazione. Bashar viene accusato di aver utilizzato armi chimiche, e dovrà andarsene. Nei negoziati di pace, poi, è meglio non entrare. Ci pensi l’Onu. E ci pensi Putin, se ci riesce. In Siria c’è la guerra dell’Iran. Che con le sue milizie sciite, al pari degli Hezbollah libanesi, ha avuto un gran peso sull’esito della guerra. Ora vuole riscuotere, magari ricevendo investimenti russi e cinesi al posto di quelli occidentali che arrivano con il contagocce. Quel che Teheran teme e cerca di evitare, è uno scontro armato con gli americani. Perché farebbe il loro gioco. In Siria c’è la guerra di Israele. Lo si è visto di recente con l’abbattimento del drone iraniano partito dalla Siria (quello che Netanyahu ha esibito a Monaco) e subito dopo con l’F-16 israeliano colpito dai siriani. Ma i timori di Gerusalemme vanno ben oltre: Iran, Siria, Iraq e Hezbollah formano una mezzaluna sciita potente e aperta sul Mediterraneo. La sicurezza di Israele è minacciata, ma la risposta c’è: l’asse con Trump (e con l’Arabia Saudita) per contenere l’Iran. Se necessario con la forza. Sei guerre esplosive e intrecciate tra loro pesano sui futuri equilibri del Medio Oriente e del mondo. Servono tregue umanitarie da Ghouta a Idlib, servono processi negoziali non concorrenti, servono statisti capaci di concepire strategie di contenimento. Ma essere ottimisti diventa sempre più difficile.