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 2018  febbraio 21 Mercoledì calendario

La commedia degli equivoci che uccide le agenzie di stampa

Cosa succede quando una già massiccia dose di tagli di spesa pubblica viene amministrata, per così dire, senza la dovuta accortezza tecnica? Esattamente quel che accade oggi nel delicatissimo settore delle agenzie di stampa, vale a dire la fonte primaria – via abbonamenti commerciali – di buona parte di quel che leggete su siti e giornali o vedete in tv. Chi controlla le agenzie, controlla il flusso delle notizie: ciò che avrà un pubblico e ciò che non lo avrà, quel che diventerà un fatto rilevante nel pubblico dibattito e quel che morirà nell’oblio pur se formalmente noto.
Questo delicato sistema – da anni sotto ricatto di governi e partiti attraverso le convenzioni annuali – rischia oggi il collasso via tagli di spesa selvaggi e una gestione, per così dire, rivedibile del settore sia della politica che dei soi-disant editori (coi soldi degli altri). Detto in breve, due tra le maggiori agenzie italiane rischiano la chiusura (Askanews) o un pesante ridimensionamento (AdnKronos).
Com’è potuto succedere? Per capire serve un breve riassunto. In Italia, incredibilmente, ci sono oltre dieci agenzie di stampa nazionali: da quelle grandi e con maggiore tradizione (Ansa, Agi) a quelle più piccole e recenti (9 Colonne, Vista): una situazione che ha pochi paragoni nel mondo, in cui in genere le grandi agenzie nazionali non sono più di due o tre. Il risultato è che in Italia non esistono colossi come Associated Press o Reuters, ma una costellazione di aziende quasi sempre mal gestite che stanno in piedi a fatica o sono alle prese con tagli di sedi, personale e qualità del notiziario: d’altra parte i fondi pubblici delle varie convenzioni “nazionali” sono passati in un decennio dai circa 49 milioni totali del 2007 ai circa 38 attuali (-22% circa).
Politica industriale? No, grazie (#statesereni)
Per questo da anni si parla di incentivare le fusioni attorno alle due aziende più grandi: l’Ansa – di proprietà dei principali editori italiani – e l’Agi, che è dell’Eni. Un progetto di questo genere era stato prodotto dall’allora sottosegretario con delega all’Editoria, e oggi vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: poi la poca lungimiranza degli editori e il cambio di governo (#enricostaisereno) hanno riportato il processo al punto di partenza. Da allora sulle provvidenze pubbliche alla stampa regna Luca Lotti, un tempo sottosegretario, asceso poi alla poltrona ministeriale con Paolo Gentiloni. E Lotti sul tema ha un’idea assai più effettuale del suo predecessore: niente voli pindarici, anche noti come “politica industriale”, ma una piccola razionalizzazione del sistema. E così nel 2015 arriva la direttiva che, cercando di rendere indolori le sforbiciate ai fondi, semplifica un po’ il sistema tagliando qualche ramo secco, cioè le agenzie piccolissime: per accedere ai soldi bisogna avere certi requisiti minimi in termini di forza lavoro, presenza sul mercato privato, sedi e quantità di produzione.
Problema: il Consiglio di Stato all’inizio del 2017 dà ragione alla piccola agenzia Il Velino (area centrodestra) e annulla la direttiva Lotti perché indebitamente comprime il pluralismo. La reazione, avallata dagli ideologici del “tutto va messo a gara” dell’Autorità anticorruzione, è “faremo un bando europeo” (europeo è sempre meglio che niente). Problema: esporre un bene costituzionalmente garantito come l’informazione a una procedura concorrenziale di questo genere da un giorno all’altro rischia non solo di uccidere il benedetto pluralismo, ma pure le aziende. La reazione è uno sciopero dei giornalisti di tutte le agenzie: il fronte è rotto solo dalla piccola Dire. Un paradosso se si pensa che era nata a fine anni 80 come organo dei gruppi parlamentari del Pci.
La gara pubblica ovvero l’impazzimento totale
Alla fine, e siamo al 2017, arrivano “i Lotti di Lotti”. Il ministro, però, non ha voluto esagerare col mercato e ha diviso i fondi con cui le Amministrazioni centrali acquistano i “servizi informativi” in 10 lotti dal valore totale di 115 milioni per 36 mesi (circa 38 milioni l’anno): se ne può vincere solo uno (perché uno per uno non fa male a nessuno) e si può concorrere solo a due. Il bando di gara arriva a maggio e, a guardarlo, sembra che ogni lotto sia stato pensato per una precisa agenzia: il primo per Ansa, il secondo per AdnKronos, il terzo per Askanews, il quarto per Agi e via così fino al più piccolo da 170 mila euro l’anno. E qui parte una sorta di commedia degli equivoci. Intanto il “vestito di sartoria” del disciplinare di gara cade male addosso all’AdnKronos: per aggiudicarsi il Lotto 2 da 9 milioni l’anno, infatti, bisogna produrre un notiziario “diffuso 7 giorni su 7” negli ultimi tre anni. Peccato che l’agenzia del Cavalier Pippo Marra abbia deciso a un certo punto di chiudere la domenica per risparmiare: il Lotto 2 va deserto perché AdnKronos decide di buttarsi sul terzo. L’altra cosa non prevista da Lotti e soci è che gli editori, non fidandosi l’uno dell’altro, pratichino forti ribassi sulle basi d’asta: l’Ansa vince ma con uno sconto del 15%, l’Agi del 27, l’AdnKronos addirittura del 35% (si aggiudica il Lotto 3 che il destino, diciamo così, aveva riservato ad Askanews, che rimane invece a bocca asciutta).
Qui la faccenda si complica. Il Lotto 2 viene rimesso a gara, ma senza quel fastidioso obbligo di trasmettere sette giorni su sette. Ansa però – che col suo ribasso rischia di perdere oltre un milione l’anno – partecipa al bando e vince (con un ribasso solo del 2%) liberando il Lotto 1. Viene allora “ribandito” anche quello: se tutto andasse come il destino, diciamo così, aveva in mente, dovrebbe aggiudicarselo AdnKronos liberando così il Lotto 3 per Askanews. Ma c’è un nuovo inghippo: al bando partecipa anche un raggruppamento di imprese costituito dall’agenzia Dire (che aveva già vinto il Lotto 6 con un ribasso del 12,5%) e da Mf-Dow Jones. Quando, e siamo a inizio febbraio, si aprono le buste Dire-Mf hanno il primo punteggio, anche grazie a un ribasso sulla base d’asta addirittura del 53%: l’offerta è tecnicamente “anomala” e dunque la commissione prende tempo per verificare gli aspetti tecnici.
Gli interessati, però, fremono: l’agenzia Dire e il suo editore Federico Bianchi di Castelbianco in due comunicati – irrituali per non dire di peggio – rivendicano sostanzialmente l’assegnazione del Lotto 1 bis a gara ancora aperta (anzi, su Twitter l’agenzia parla già di assegnazione). In realtà gli approfondimenti della commissione dureranno fino a metà marzo e riguarderanno sia le proposte sia i requisiti tecnici di partecipazione alla gara: insomma, niente è deciso, ma se alla fine AdnKronos perdesse questo Lotto si ritroverebbe a incassare 4 milioni l’anno anziché gli 8-9 preventivati, mentre Askanews passerebbe dai 5-6 incassati finora (metà del fatturato) a zero. Tradotto: una ristrutturazione pesante e una liquidazione. Sarà, in ogni caso, guerra di ricorsi.
Capitalisti senza capitale: il caso Abete
Askanews è un caso di scuola sul modello “imprenditoriale” di molti editori italiani. L’agenzia – nata nel 2014 dalla fusione tra la cattolica Asca e TmNews (ex Telecom) – è controllata al 90% circa da Luigi Abete attraverso News Holding e A.be.te. e, da quando è nata, è in crisi: contratti di solidarietà, poi divenuti, nel 2017, prepensionamenti e Cassa integrazione a rotazione. Un salasso da oltre 4 milioni di euro solo per i 100 giornalisti. Ora c’è l’inghippo dei Lotti di Lotti e Abete pretende che il rischio d’impresa, ammesso che alla fine arrivino i soldi di Palazzo Chigi, se lo assumano i circa 130 lavoratori ampliando la Cig al 50%.
Mancano i soldi, dice l’azienda, che ha minacciato di non pagare più gli stipendi. Ed è un peccato, in tempi di crisi di liquidità, che a marzo 2017 la Askanews controllata da Abete – che aveva un credito da 2,3 milioni con la News Holding di Abete passatole dalla A.be.te. di Abete – abbia deciso di acquistare proprio dalla Holding di Abete azioni per oltre 2,2 milioni di euro di altre aziende di Abete (tra cui il 19% della rivista Internazionale) pagandole proprio con quel vecchio credito: soldi che avrebbero fatto comodo in crisi di liquidità, però in questo modello di capitalismo il rischio d’impresa pare debba assumerselo non il capitalista, ma chi lavora.