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 2017  dicembre 14 Giovedì calendario

«Il mio amico Giovannino Agnelli che voleva l’impresa fatta di valori»

Un giorno del 1997, ero vicepresidente del Consiglio, squillò il telefono nella mia stanza. Era Giovanni Alberto Agnelli che mi chiamava dagli Stati Uniti dove stava combattendo la fase più difficile della sua battaglia contro il tumore, una specie rara e aggressiva, che, dai giorni di Pasqua di quell’anno, gli aveva devastato il corpo e la vita. Mi disse parlando con voce serena, lo ricordo ancora, che la sua battaglia era difficile, forse impossibile, ma che in quell’ospedale vedeva tanti bambini malati e pensava perciò di essere comunque fortunato. Scrivo questo ricordo nelle ore in cui, venti anni fa, Giovannino moriva. Le scrivo perché non ho mai smesso di rimpiangerlo. 
Era un ragazzo, aveva trentatré anni e un futuro meraviglioso davanti. L’Avvocato lo aveva designato pubblicamente come futuro capo della Fiat. Si era sposato da poco con Avery, che stava aspettando una bambina. Era bello, ricco, giovane, simpatico. Gli dei sembravano essere stati generosi con lui. Ma poi si sono ripresi tutto. Tutto in una volta, con fretta e brutalità. 
Ci eravamo conosciuti all’inizio degli anni Novanta. Ero direttore de l’Unità. Enrico Rossi, allora sindaco di Pontedera, e il presidente della Fondazione Piaggio, Barberis avevano insistito perché noi due ci incontrassimo. Lui era da poco diventato presidente dell’azienda che produceva la Vespa. Ricordo che la prima cosa di cui mi parlò, con entusiasmo, fu un «Manifesto dei valori» che aveva redatto e affisso nel suo ufficio e che racchiudeva, per lui, il senso della missione di un’azienda. C’era scritto: «La nostra azienda ha tra i propri punti di riferimento fondamentali la responsabilità sociale. In tale ambito ritiene prioritarie le problematiche della sicurezza e dell’impatto ambientale, dei prodotti come dei processi produttivi». Giovanni disse una volta: «Non posso accettare che the ultimate scope dell’industria sia quello di fare soldi. Il profitto è una parte essenziale, però penso che il ruolo dell’industria sia anche migliorare la società e la qualità della vita». Quel giorno mi parlò perciò, con la stessa passione, dell’ultimo modello di scooter e della sua volontà, poi attuata, di costituire il museo della Piaggio, come testimonianza non solo dell’evoluzione dei motori e del design ma, in primo luogo, del lavoro umano, della ricerca. E della necessità di riconoscere a essi ruolo e diritti. Era convinto, ad esempio, che si dovesse combattere l’anomalia italiana di salari con un netto troppo basso e un lordo altissimo. Nel manifesto aveva scritto: «Le persone sono all’origine della nostra forza. Sono la risorsa e l’intelligenza dell’organizzazione... Il coinvolgimento a ogni livello, il lavoro in squadra, la condivisione degli obiettivi sono necessari per la realizzazione della nostra missione».
Aveva lavorato in Comau sotto falso nome, per capire come funzionava la catena di montaggio. Poi era stato paracadutista. Il suo comandante di allora, Michele Tunzi, così lo ha ricordato: «Il giorno del suo arrivo, al termine del discorso iniziale – racconta il comandante – mi chiese di potermi parlare in disparte per qualche minuto. Teneva molto, mi disse, al fatto di essere trattato come gli altri ragazzi. Si rendeva conto che il suo nome era un nome particolare e questo lo metteva a disagio. Per questo motivo ci chiese di aiutarlo affinché ciò non influenzasse il nostro atteggiamento». 
Io lo ricordo così. Pieno di valori e di semplicità. Si chiedeva cosa il suo lavoro di imprenditore potesse fare per migliorare il suo Paese. Aveva chiaro cosa significasse l’espressione «ruolo sociale dell’azienda». Ho nella memoria tante conversazioni con lui su questo tema, anche qui, nella casa dove scrivo ora questo ricordo.
Amava l’Italia e ne immaginava un futuro prospero e giusto, due parole che non sono un ossimoro. Era un ragazzo straordinario, davvero. Penso che se la sua vita fosse continuata il destino di questo Paese forse sarebbe stato diverso. 
Prima di morire conobbe il volto di sua figlia e confessò a don Renzo Savarino il suo stato d’animo di fronte all’ultima prova: «Voglio vivere, desidero vivere, prego per vivere. Ma se il Signore vuole altro da me è perché per me sarà meglio così». Monsignor Riboldi disse: «Queste sofferte parole dimostrano come niente sia impossibile a Dio: mi ritorna in mente un passo evangelico, quello in cui Gesù racconta che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei cieli. Ecco, nel caso di Giovannino Agnelli si è verificato il caso del cammello che passa nella cruna di un ago».